Giovedì 19 dicembre 2013, ore 21
sarò ospite della Scuola Nautica "Lunga Rotta" di Modena
L'incontro si terrà presso "Il Baluardo della Cittadella" di Modena
P.zza Tien an Men, 5
Parlerò di venti e vele, a partire dal mio libro "Anemos. I venti del Mediterraneo"
"Lungo tutte le rive del
Mediterraneo, il vento insieme al cielo e alle onde sono frammenti intatti di
un paesaggio odissiaco giunto fino ai giorni nostri. Anzi, il vento più delle
onde solcate da enormi mercantili e del cielo attraversato da veloci aerei,
rimane l’unico immutabile elemento dalla notte dei tempi. Forse anche per
questo indissolubile legame con un passato mitico, crescendo mi sono
appassionato alla vela, che del vento è la macchina per eccellenza."
lunedì 16 dicembre 2013
sabato 30 novembre 2013
Insulomania
ISCHIA
Ci
sono isole misteriose, fantastiche, mitiche, deserte o sconosciute;
ma, soprattutto in Mediterraneo, ci sono anche isole arcinote, isole
che sono entrate nell'immaginario collettivo fin dalla notte dei
tempi, il cui primo racconto ci viene addirittura dal padre di tutti
i corografi: Odisseo. Potremmo chiamarle iconoisole,
fondendo insieme due parole a loro modo affini: icona e isola. Cos’è
infatti un'icona se non una piccola immagine che insieme si stacca
dallo sfondo e lo caratterizza? Che lo sfondo poi sia un paesaggio
geografico o culturale, un dekstop o un mare, poco importa; in tutti
i casi l'icona è un'isola che riassume e rappresenta caratteri
facilmente riconoscibili.
Iconoisola
per eccellenza è Ischia, la più grande e conosciuta delle isole
flegree, icona marina, insieme a Capri, del golfo di Napoli. Se è
sempre difficile riassumere in una pagina le qualità geografiche,
storiche e culturali significative di una qualsiasi isola, diventa
impossibile nel caso delle iconoisole.
Perciò dovendo inevitabilmente scegliere tra infinite rotte
narrative, per Ischia seguiremo quella tracciata dagli scrittori. Il
profilo, le cale, gli approdi, le vette, che le parole evocano,
lasciando alla fantasia gli spazi sconfinati dei mari antichi, quelli
non rimpiccioliti dalle zoomate satellitari, non fissati dalle
immagini digitali.
Il
suo nome deriverebbe direttamente dal termine latino insūla,
attraverso la forma intermedia iscla.
Letterario era anche il nome latino dell'isola, Aenaria,
che per Plinio derivava dal mitico approdo della flotta di Enea ,
così come quello greco Pithecussae
, legato secondo alcuni al culto di Apollo Pitio, signore indiscusso
delle arti, un dio per nascita insulomane , perché nato a Delo.
Ischia
è per un poeta francese dell'Ottocento “un'unica montagna a picco
sul mare con la candida cima sbrecciata dal fulmine che protende i
denti al cielo” . Negli anni Cinquanta del Novecento Elsa Morante
scrive che nelle isole flegree, “nei giorni quieti il mare è
tenero e fresco e si posa sulla riva come rugiada” . Nei decenni
successivi Ischia è non solo lo sfondo, ma la protagonista di due
tra gli scrittori contemporanei più acquatici d'Italia: Raffaele La
Capria ed Erri De Luca.
...
L'articolo completo è pubblicato sul numero di novembre 2013 di BOLINA
mercoledì 20 novembre 2013
Incontri
Sabato 23 novembre, ore 16, il progetto sociale “La fucina delle idee” propone “Un mare di amici”. Un incontro, a cui parteciperò anch'io, sulle tradizioni della marineria locale e una visita guidata al "Museo della piccola pesca e delle conchiglie" di Viserbella di Rimini, "E' Scaion", in via Minguzzi, 7.
giovedì 31 ottobre 2013
Biblioteca di mare e di costa
Come anguilla “che risale in profondo, sotto la piena avversa”,
riprendendo un verso di Eugenio Montale, anche noi risaliamo
controcorrente le vie d’acqua che portano dall’Adriatico al Po.
Possiamo farlo a piedi o a pedali o a remi, magari partendo da
Ravenna, la più orientale delle città lambite da uno degli infiniti
rami, passati e presenti, del grande Fiume.
In tutti e tre i casi possiamo farlo con l'aiuto del nuovo, prezioso, portolano fluviale di Paolo Rumiz che del lento viaggiare ha fatto ragione e racconto di vita. E’ uscito infatti nella primavera scorsa “Morimondo” (Feltrinelli, pp. 315; € 18), diario di un viaggio fatto da Rumiz lungo il Po, dalle dolci rapide di Staffarda, qualche decina di chilometri a valle delle sorgenti del Monviso, alla selvaggia quiete del Delta e di lì a Sansego, idealmente la più orientale delle Isole Elettridi. Isole leggendarie, come tutte le storie che Rumiz è andato cercando lungo il Po, il “grande monosillabo” a cui non serve l'articolo, perché non è un luogo ma un Dio che si fa carico da decenni di tutte le nostre immondizie, colpe ed errori, e, malgrado tutto, è ancora capace di cantare. Più prosaicamente avendolo disceso a remi e a vela, gli unici modi che consentono un ascolto attento, Po è prima di tutto “l'ultimo spazio d'avventura d'Italia”. Settecento chilometri, compresi i rami deltizi, che diventano millequattrocento di rive libere e selvagge.
Dopo pochi giorni dalla partenza Rumiz capisce che il suo obiettivo non sarà elencare, spiegare o citare, la vasta letteratura umanistica e scientifica, ma sarà quello di entrare nella leggenda. Un compito assai arduo perché l'acqua, dolce o salata che sia, è infinitamente più difficile da decifrare della terra. Difficoltà legate ai segni che sono labili come le rotte, alla scrittura che diventa tremolante come le onde, ai pensieri che svaporano come le acque. Così il taccuino dell'autore rimane vuoto per giorni, il Fiume non si disvela facilmente, è “acqua in ostaggio” come i rarissimi uomini che la abitano, nel senso pieno del termine. A ciò si aggiungono gli imprevisti, tra cui il ribaltamento con tutte le conseguenze del caso. Anche Rumiz sperimenta la perfidia dell'acqua, quando inaspettatamente punisce una sua distrazione, facendolo ribaltare e cancellando le poche parole appuntate nei giorni precedenti. Ma, malgrado tutto, miglio dopo miglio, vogata dopo vogata, Rumiz scopre che l'unico vero modo per conoscere un fiume è navigarlo, vivendo “una grandiosa avventura. Oltre ogni speranza, ogni immaginazione”.
Non manca comunque una precisa geografia fatta innanzitutto di toponimi di antichissima ascendenza, una dettagliata narrazione di suggestivi incontri, una minuziosa riscoperta di storie fluviali dimenticate. Tutte queste annotazioni hanno allungato all'inverosimile anche la mappa del Fiume, facendone una vera e propria Tabula Rumiziana lunga tre metri, larga sessanta centimetri, redatta minuziosamente a mano e continuamente aggiornata, che trovava la sua perfetta collocazione la sera sui tavoli delle osterie. Già, le osterie “favolose stazioni del pellegrino fluviale!”, di quello di ieri come di quello di oggi, che se apparentemente sconta il venir meno di paesaggi e dialetti, ritrova comunque nella strepitosa varietà e gustosità dei cibi, l'ultimo rifugio delle identità locali.
Perché poi un libro dedicato a Po si chiami “Morimondo”, titolo che evoca il realismo magico di Gabriel García Márquez, un altro grande narratore fluviale, lo scoprirà solo il lettore più attento, quello che, con la stessa pazienza richiesta da ogni viaggio, saprà attendere il preciso momento in cui l'autore lo rivela, facendolo finalmente salire a bordo.
In tutti e tre i casi possiamo farlo con l'aiuto del nuovo, prezioso, portolano fluviale di Paolo Rumiz che del lento viaggiare ha fatto ragione e racconto di vita. E’ uscito infatti nella primavera scorsa “Morimondo” (Feltrinelli, pp. 315; € 18), diario di un viaggio fatto da Rumiz lungo il Po, dalle dolci rapide di Staffarda, qualche decina di chilometri a valle delle sorgenti del Monviso, alla selvaggia quiete del Delta e di lì a Sansego, idealmente la più orientale delle Isole Elettridi. Isole leggendarie, come tutte le storie che Rumiz è andato cercando lungo il Po, il “grande monosillabo” a cui non serve l'articolo, perché non è un luogo ma un Dio che si fa carico da decenni di tutte le nostre immondizie, colpe ed errori, e, malgrado tutto, è ancora capace di cantare. Più prosaicamente avendolo disceso a remi e a vela, gli unici modi che consentono un ascolto attento, Po è prima di tutto “l'ultimo spazio d'avventura d'Italia”. Settecento chilometri, compresi i rami deltizi, che diventano millequattrocento di rive libere e selvagge.
Dopo pochi giorni dalla partenza Rumiz capisce che il suo obiettivo non sarà elencare, spiegare o citare, la vasta letteratura umanistica e scientifica, ma sarà quello di entrare nella leggenda. Un compito assai arduo perché l'acqua, dolce o salata che sia, è infinitamente più difficile da decifrare della terra. Difficoltà legate ai segni che sono labili come le rotte, alla scrittura che diventa tremolante come le onde, ai pensieri che svaporano come le acque. Così il taccuino dell'autore rimane vuoto per giorni, il Fiume non si disvela facilmente, è “acqua in ostaggio” come i rarissimi uomini che la abitano, nel senso pieno del termine. A ciò si aggiungono gli imprevisti, tra cui il ribaltamento con tutte le conseguenze del caso. Anche Rumiz sperimenta la perfidia dell'acqua, quando inaspettatamente punisce una sua distrazione, facendolo ribaltare e cancellando le poche parole appuntate nei giorni precedenti. Ma, malgrado tutto, miglio dopo miglio, vogata dopo vogata, Rumiz scopre che l'unico vero modo per conoscere un fiume è navigarlo, vivendo “una grandiosa avventura. Oltre ogni speranza, ogni immaginazione”.
Non manca comunque una precisa geografia fatta innanzitutto di toponimi di antichissima ascendenza, una dettagliata narrazione di suggestivi incontri, una minuziosa riscoperta di storie fluviali dimenticate. Tutte queste annotazioni hanno allungato all'inverosimile anche la mappa del Fiume, facendone una vera e propria Tabula Rumiziana lunga tre metri, larga sessanta centimetri, redatta minuziosamente a mano e continuamente aggiornata, che trovava la sua perfetta collocazione la sera sui tavoli delle osterie. Già, le osterie “favolose stazioni del pellegrino fluviale!”, di quello di ieri come di quello di oggi, che se apparentemente sconta il venir meno di paesaggi e dialetti, ritrova comunque nella strepitosa varietà e gustosità dei cibi, l'ultimo rifugio delle identità locali.
Perché poi un libro dedicato a Po si chiami “Morimondo”, titolo che evoca il realismo magico di Gabriel García Márquez, un altro grande narratore fluviale, lo scoprirà solo il lettore più attento, quello che, con la stessa pazienza richiesta da ogni viaggio, saprà attendere il preciso momento in cui l'autore lo rivela, facendolo finalmente salire a bordo.
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venerdì 18 ottobre 2013
Incontri
"Ogni volta che issiamo una vela, entriamo a far parte di un mondo antico. Rinnovando un rituale di comunione con il vento, entriamo nell’ánemos del Mediterraneo"
Mercoledì 23 ottobre, ore 19.15
Rimini - Enoteca "Lavanderia" via Cavalieri, 16
Respiro mediterraneo. Storie di venti e di vele
Una chiacchierata marinaresca, organizzata dall'Agenzia Nautica Albatros di Rimini, a partire dai miei ultimi libri "Anemos. I venti del Mediterraneo" e "Vela libre. Idee e storie per veleggiare in libertà".
giovedì 26 settembre 2013
Biblioteca di mare e di costa
“L'arte dei remèri. I 700 anni dello statuto dei costruttori di remi” (Aa. vv. - a cura di Giovanni Caniato, Cierre Ed., Verona; pp 276, € 23,00) è
una vera e propria summa della storia di remi, rematori e remèri di Venezia,
una delle più durature e illustri capitali mediterranee del remo. Il libro è
stato pubblicato per la prima volta nel 2007, proprio in occasione dei 700 anni
dello statuto della Mariegola dei Remèri, cioè della confraternita dei
costruttori di remi, che venne ratificato il 15 settembre 1307. Un approfondito
excursus storico e tecnico su questo strumento, per secoli indispensabile,
perciò oggetto di attenzione e addirittura di venerazione, insieme al suo
fondamentale complemento: la forcola. Forcole che a Venezia, a bordo delle
gondole, sono diventate oggetti d'arte di straordinaria bellezza. Non a caso il
libro è dedicato a Giuseppe Carli (1915-1999), “maestro ineguagliabile e
artefice del riscatto dei remèri ottenuto elevando la fórcola a oggetto
ricercato per le sue qualità plastiche oltre che funzionali”. Nel libro vengono affrontati tutti gli
argomenti legati alla storia, alle caratteristiche e alla produzione di remi e
forcole, dall'età dell'oro medievale fino alle creazioni dell'ultima
“generazione di remèri”, tra cui quelle di Saverio Pastor che alla metà degli
anni Settanta del Novecento impararò il mestiere andando a bottega proprio da Giuseppe
Carli. Per secoli il legname necessario alla costruzione veniva dai boschi
alpini e balcanici. Importantissimo è quello del Cansiglio che tra Cinquecento
e Seicento riforniva di ottimo faggio la Serenissima. Da qui provenivano stele
da remo per ogni tipo di imbarcazioni,
dalla grande galeazza che aveva remi lunghi 15 metri al piccolo copano,
armato con remi di 6 metri. Grande attenzione è posta anche all'evoluzione
recente dei materiali di costruzione, cioè dalle stèle de faghèr ai remi
in lamellare. Da una cinquantina d'anni il faggio è sostituito con il ramino,
essenza orientale, più rigida e leggera. Luigi Divari invece propone un testo
dedicato alla voga sulle barche da pesca, corredato da suoi suggestivi
acquarelli.
Il libro si chiude con un dettagliato elenco ragionato dei luoghi della
memoria,ossia di tutte quelle istituzioni che a vario titolo, in tutta Italia,
conservano oggetti, immagini, memorie dei remi e delle barche su cui erano
armati.
Articolo pubblicato sul Corriere Romagna di lunedì 22 settembre 2013
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giovedì 12 settembre 2013
Insulomania
FAVIGNANA
Se nella fortunata allegoria cartografica di Tiziano Scarpa, Venezia è genericamente un pesce unito alla terraferma da quella sottile lenza che è il Ponte della Libertà, Favignana è precisamente un tonno libero nel Canale di Sicilia. Precisamente se non si considera la forma, che normalmente viene paragonata a una farfalla, ma la storia. Infatti, benché tante isole mediterranee siano legate a questo straordinario pesce, nessuna lo è stata per secoli in maniera quasi esclusiva e fortemente pervasiva come Favignana. Ma prima di dilungarsi necessariamente sul tonno, non dimentichiamo la corografia. Favignana è l'isola principale dell'arcipelago delle Egadi che si completa con Levanzo, Marettimo e gli scogli di Formica e Maraone.
Se nella fortunata allegoria cartografica di Tiziano Scarpa, Venezia è genericamente un pesce unito alla terraferma da quella sottile lenza che è il Ponte della Libertà, Favignana è precisamente un tonno libero nel Canale di Sicilia. Precisamente se non si considera la forma, che normalmente viene paragonata a una farfalla, ma la storia. Infatti, benché tante isole mediterranee siano legate a questo straordinario pesce, nessuna lo è stata per secoli in maniera quasi esclusiva e fortemente pervasiva come Favignana. Ma prima di dilungarsi necessariamente sul tonno, non dimentichiamo la corografia. Favignana è l'isola principale dell'arcipelago delle Egadi che si completa con Levanzo, Marettimo e gli scogli di Formica e Maraone.
…
L'isola offre anche tanto altro, prodotti e storie, di ieri
e di oggi. Di grande suggestione è Cala Rossa, un'insenatura “cubista”,
realizzata nel corso dei millenni con gigantesche fatiche umane. Lì i cavatori,
tagliando blocchi di tufo, hanno trasformato le curve linee della natura in
geometriche spezzate. Straordinari sono anche gli antichissimi graffiti, e le
successive figure nere, della Grotta del Genovese di Levanzo. Scoperti alla metà del Novecento, risalenti a circa
10.000 anni fa, ritraggono figure di animali e uomini. Più numerosi e variegati
i primi; specie bovine, cervine ed equine, che nella apparente semplicità del
tratto restituiscono la primitiva potenza animale e la conseguente venerazione
umana. Una preghiera che, sempre nelle rappresentazioni rupestri, si recita con
una danza tribale.
Un rituale che l'insulomane rinnova bordeggiando sull'acqua,
disegnando evanescenti graffiti, cancellati inesorabilmente dall'onda e dal
vento.
L'articolo completo è pubblicato sul numero di settembre 2013 di BOLINA
L'articolo completo è pubblicato sul numero di settembre 2013 di BOLINA
mercoledì 14 agosto 2013
Biblioteca di mare e di costa
"Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad
Joseph Conrad
Venezia è stata, e rimane, il miglior porto di partenza per
l'Oriente mediterraneo, un “mare molto veneziano, dalle cittadine coloniali e
le spiagge boscose della Dalmazia, dove la Repubblica ricavava il legname per
le sue navi e i piloni per i suoi palazzi”, fino alle lontane Costantinopoli e
Alessandria, da dove vengono le reliquie di San Marco. Così s’avvia il diario di bordo di Göran Schildt, storico dell'arte e
scrittore finlandese che, fin dalle prime pagine, si rivela anche come una
acuta riflessione sulle vicende umane dell’immediato dopoguerra e antiche (Göran
Schildt, 2012. Il mare di Icaro. Mursia, Milano; pp 280, € 17). Il libro
racconta il lungo viaggio fatto negli anni Cinquanta del Novecento dall'autore,
in compagnia della moglie, a bordo dell’amatissima Daphne, una barca a vela a
due alberi di circa dieci metri di lunghezza dove trovava posto anche una lambretta,
da Murano, l'isola delle “fornaci incandescenti” che fiammeggiano da un
migliaio di anni “fin da quando i Dogi, saggiamente, proibirono l'attività
nella stessa Venezia a causa del pericolo d'incendio”. Le pagine del libro
restituiscono le atmosfere post belliche di quegli anni, l'arcaicità di un
mondo distrutto dalla guerra, poverissimo e non ancora travolto dalla modernità
e dal turismo, una delle sue industrie pesanti più invasive.
Vivissima è la testimonianza sulle profonde trasformazioni
politiche dell'area adriatica, con alcune considerazioni di prima mano
sull'evoluzione del diporto in quegli anni. Scrive infatti l'autore che prima
della guerra, quando Istria e parte della Dalmazia erano italiane, c'erano
molti diportisti, mentre poi ne rimasero pochissimi, anche perché “il clima
della Jugoslavia di Tito non era salutare per gli italiani”.
Se quelle vicende sembrano oggi lontanissime nel tempo, sempre
attuali sono le difficoltà della navigazione, a cominciare da quelle nel Golfo
di Venezia. Prima tra tutte la Bora “il terribile vento settentrionale del Mar
Adriatico”, che sorprende per la prima volta la barca finlandese alla fonda
nell'Isola di Lussino, per poi spingerla felicemente nei giorni successivi tra
le meravigliose isole foranee che si allungano verso sud per centinaia di
miglia. Raggiunta Ragusa il viaggio prosegue verso Brindisi per ritornare a
oriente nelle isole greche dello Ionio e, passato Corinto, ancora più a sudest
in quel “mare di Icaro”, il cui tragico volo “non era un fatto fortuito, era un
esempio: la sua audacia è parte integrante dell'atteggiamento dell'uomo
occidentale nei confronti della vita”. Senza dimenticare che secondo il mito
sempre Icaro e il padre Dedalo sono gli inventori della vela, la prima
potentissima e pericolosissima macchina che ha permesso all'uomo di
oltrepassare le Colonne d'Ercole.
Articolo pubblicato sul Corriere Romagna di lunedì 12 agosto 2013
mercoledì 7 agosto 2013
Adriatico, mare d'Europa
Dal primo di luglio la Croazia fa parte
dell'Unione Europea. Finalmente, dopo secoli di divisioni e anni di
guerra, l’Adriatico diventa un mare anche politicamente unito sotto
un'unica bandiera, blu come il mare, in cui un marinaio potrebbe
scambiare le stelle per isole, quelle splendide istro-dalmate. Non
dimentichiamo che l'Adriatico è l’unico mediterraneo
geograficamente europeo, a differenza di tutti gli altri sui quali
s'affacciano diversi continenti. Se le prospettive invece sono altre,
storiche, religiose, culturali, allora l'Adriatico “da solo e per
analogia, pone tutti i problemi impliciti nello studio dell'intero
Mediterraneo” continua a ricordarci Fernand Braudel. Un altro
grandissimo narratore mediterraneo, Predrag Matvejević,
ha scritto che “l'Atlantico e il Pacifico sono i mari delle
distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l'Adriatico il
mare dell'intimità”. Per chi lo ha navigato in lungo e in largo
l'Adriatico è un mare duplice, per un'infinità di caratteri,
innanzitutto morfologici e geologici delle opposte sponde. Quasi
completamente basse, sabbiose e antropizzate quelle occidentali, fino
al promontorio del Gargano; rocciose, selvagge e semideserte quelle
orientali. Duplice è anche la sua natura meteorologica, con inverni
di nebbia, gelo e Bora come in un vero mare del nord ed estati di
sole, siccità e Scirocco come in tutti i mediterranei. L'Adriatico è
per antonomasia il luogo di scontro tra le opposte fazioni dei figli
di Eolo, quelli settentrionali, capitanati proprio dalla gelida
zarina siberiana e quelli meridionali, alla cui testa sta l'umido
rais sahariano.
…
Per chi va a vela l’Adriatico rimane
il Golfo di Venezia. Lunghissima la sua storia, indelebili le tracce
architettoniche e culturali, intramontabile la grandiosa aura,
malgrado i successivi tanti tragici errori commessi dalle genti delle
due rive. Ogni anno centinaia di barche a vela provenienti dai porti
dei cinque continenti risalgono il Golfo, non sempre spinte da
favorevoli venti sud-orientali, ma comunque determinate a raggiungere
dal mare la Serenissima. Perché come ha scritto Thomas Mann,
arrivare a Venezia dalla terraferma è come “entrare in un palazzo
dalla porta di servizio” e che solo per nave, dall'alto mare,
bisogna “giungere nella più inverosimile città del mondo”.
Lunghissima o breve che sia stata la navigazione, piccola o grande
che sia la prua, insuperabile è l'emozione di bagnarla nelle acque
sempre agitate del Canal Grande, vedendo sfilare davanti a sé le
straordinarie architetture veneziane, testimoni della grandezza non
solo economica della Repubblica. E ancor prima di tanta magnificenza,
qualsiasi bocca di porto si sia scelto per entrare, già la Laguna e
le sue numerosissime isole avranno regalato forti emozioni. Un
paesaggio unico, per dimensioni e caratteristiche, in cui natura e
cultura si sono nei millenni intimamente mescolate, come le acque
dolci e salate a ogni cambio di marea.
…
I fatti del Novecento
sono tristemente noti, ma non bisogna mai dimenticare che ad anni di
guerra si sono alternati secoli di pace e per festeggiare la
rinnovata fratellanza riporto le parole di due grandi marinai nati e
cresciuti sulle rive adriatiche: Agostino Staulino e Carlo
Sciarrelli. Il primo, nato a Lussinpiccolo nel 1914, diceva che
l'isola dove era nato gli aveva insegnato ad amare il mare,
“sentimento che bisogna coltivare per poter navigare”.
…
Di Carlo Sciarrelli, nato a Trieste nel
1934, oltre alle splendide barche, va ricordata non solo passione,
competenza ed estro per la progettazione degli yacht, ma più in
generale per la cultura del mare. Nell'introduzione al suo “Lo
yacht. Origine ed evoluzione del veliero da diporto”, ormai un
classico della letteratura marinaresca, Sciarrelli sollecita l'uso
del “linguaggio del mestiere, dal quale non si può prescindere”,
quel linguaggio che apprese ed affinò proprio navigando in
Adriatico.
…
Ora che da Trieste a Otranto, da Capodistria (Koper) a Ragusa (Dubrovnik), l'Adriatico è un mare d'Europa sarà più semplice conoscersi e riconoscersi, certi che l'appartenenza adriatica è un fatto esperienziale che deve diventare anche culturale, basta semplicemente mollare gli ormeggi per avventurarsi in quel "mar grando" caro al poeta Biagio Marin.
L'articolo completo è pubblicato sull'ultimo numero del mensile Bolina (luglio-agosto 2013)
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mercoledì 31 luglio 2013
Incontri
Doppio appuntamento questa settimana per la presentazione di
"Anemos. I venti del Mediterraneo"
mercoledì 31 luglio 2013 alle ore 21
Circolo Nautico di San Benedetto del Tronto
"Vela libre. Idee e storie per veleggiare in libertà"
venerdì 2 agosto alle ore 18
Bagno Fatini di Cervia (RA)
lunedì 1 luglio 2013
Il nostro mare quotidiano
Il 28 giugno 2003 moriva Simone Bianchetti, "confratello della costa" con cui ho condiviso miglia e sogni. Per il quotidiano Corriere Romagna ho scritto un breve ricordo, pubblicato oggi, di cui anticipo una parte.
Simone Bianchetti è stato per me la reincarnazione di Long
John Silver. Di quel pirata avevo letto da bambino qualità e gesta narrate da
Robert Luis Stevenson ne “L'Isola del Tesoro” e, anni dopo, il suo diario trascritto
con altrettanta maestria da Björn Larsson ne “La vera storia del pirata Long
John Silver”. Come quell'indomito avventuriero, anche Simone aveva un
fortissimo spirito di ribellione e un'altrettanta potente determinazione. Non
credo cercasse il tesoro dorato del capitano Flint ma, forse, quello che offre,
spesso a duro prezzo il mare: la libertà. Di certo come Silver se ne
“infischiava della vita eterna” e sapeva “meglio di chiunque altro che non ci è
data che una sola e unica vita da questo lato della fossa”.
Di Simone avevo sentito narrare le gesta in banchina a
Rimini, alla metà degli anni Ottanta, e poi me lo ero ritrovato a bordo di una
barca, di cui non ricordo più il nome disperso nelle nebbie fittissime del
tempo, alla partenza della Rimini Corfù Rimini, alla fine di quel decennio. Entrambi
marinai, entrambi imbarcati un po' alla cieca, come tanti altri ragazzi
innamorati del mare che in quegli anni hanno potuto mettere alla prova la loro
passione in quella bellissima e faticosissima regata d'altura.
…
Di quella fondamentale avventura vissuta con Simone ricordo
innanzitutto le chiacchierate notturne nelle lunghe ore di bonaccia e, meglio
di ogni altro, un episodio occorsoci al largo del Gargano, durante il ritorno.
Dopo un pomeriggio di Scirocco con al giardinetto e lo spinnaker issato, che
faceva filare la barca a 7-8 nodi, improvvisamente il vento dapprima calò per
poi girare a nord e salire fino a oltre 30 nodi. Insomma un classico siòn,
come lo chiamavano un tempo i marinai. Purtroppo per noi la drizza dello
spinnaker si era incattivita e la vela aveva avvolto l'albero e l'attrezzatura,
stendendo la barca. Evitammo peggiori conseguenze solo grazie alla velocissima
salita sull'albero di Simone. In pochi secondi si era arrampicato a 15 metri d'altezza e,
mollando il moschettone della drizza, ci aveva permesso di ammainare la vela.
…
Quando prendo il largo da solo e guardo il segnavento in
testa d'albero, ogni tanto vedo Simone che sta di vedetta lassù, come in quel
lontano pomeriggio di giugno in mezzo alla burrasca, per controllare la mia
rotta. Lui mi saluta fischiettando la rima della pirateria, “Quindici uomini,
quindici uomini, sulla cassa del morto”, e io gli rispondo, “Yo-ho-ho, e una
bottiglia di rum!”.
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giovedì 20 giugno 2013
Anemofilia
Sabato 22 giugno 2013, alle ore 19.30
in occasione del Raduno delle Barche con Vele al Terzo al porto di Rimini, Piazzale Boscovich, leggerò alcune pagine del mio ultimo libro, “Anemos. I venti del Mediterraneo”, e quelle di altri autori che hanno raccontato i venti dell’Adriatico, tra cui Giovanni Comisso, Gabriele D’Annunzio, Giuseppe Giulietti, Dino Brizzi e Giulio Grimaldi.
L'iniziativa è organizzata dall'Associazione Vele al Terzo di Rimini.
Sugli stessi temi, anticipo di seguito una parte dell'articolo uscito lunedì scorso sul Corriere Romagna, il primo della rubrica estiva intitolata "Viva il vento", pubblicata ogni lunedì nell'inserto "Aria di mare".
in occasione del Raduno delle Barche con Vele al Terzo al porto di Rimini, Piazzale Boscovich, leggerò alcune pagine del mio ultimo libro, “Anemos. I venti del Mediterraneo”, e quelle di altri autori che hanno raccontato i venti dell’Adriatico, tra cui Giovanni Comisso, Gabriele D’Annunzio, Giuseppe Giulietti, Dino Brizzi e Giulio Grimaldi.
L'iniziativa è organizzata dall'Associazione Vele al Terzo di Rimini.
Sugli stessi temi, anticipo di seguito una parte dell'articolo uscito lunedì scorso sul Corriere Romagna, il primo della rubrica estiva intitolata "Viva il vento", pubblicata ogni lunedì nell'inserto "Aria di mare".
Se, come dicevano un tempo i marinai, su ogni mare del mondo
il vento scrive, in Adriatico i suoi racconti sono imprevedibili e bizzarri,
fin dai tempi antichi. Non che le burrasche siano più violente, ma sono
difficilmente prevedibili, non che le bonacce siano più estenuanti, ma sono
quotidianamente ricorrenti. In Adriatico i venti sono mutevoli e umorali,
possono scatenarsi o placarsi con estrema rapidità. Spesso in ventiquattrore
spirano da ogni quadrante, con forza altrettanto variabile. Emblematici i
caratteri del Garbino, vento sud-occidentale, rafficato e volubile, con effetti
meteorologici e psicologici, assai noti in Romagna.
...
I venti erano per i marinai indispensabili compagni di
viaggio, temuti e venerati, come si conviene a
dei che hanno in mano il destino. In Adriatico agli otto venti
principali, che hanno tutti un nome proprio da scriversi rigorosamente con la
maiuscola come nei vecchi portolani, se ne aggiunge un nono: la Bora. La sua
tana è nascosta tra le selve balcaniche, da cui discende furiosa, mostrandosi
con due volti, chiaro o scuro, a seconda dello stato del cielo. Tutti quelli
che hanno navigato in Adriatico ne hanno fatto esperienza, anche durante
l'estate. Lo ricorda Giovanni Comisso in uno dei suoi racconti marinareschi,
intitolato “Rade di fortuna”. “Poi la bella estate, riserva sempre impensate
burrasche di Bora. Bora che, mascherata da temporale notturno, scende giù dagli
alti monti di Segna e rimane per qualche giorno ad agitare le acque”.
Malgrado l'Italia non abbia avuto un grande narratore
pelagico, come Joseph Conrad o Hermane Melville, diversi sono gli autori che
hanno prestato attenzione ai venti, favorevoli o avversi, comunque determinati
nelle vicende marinaresche. Nel romanzo adriatico _ “Maria Risorta” di Giulio
Grimaldi, scritto ai primi del Novecento, bonacce, brezze e burrasche
scandiscono il tempo delle partenze, del lavoro e dei ritorni. Momenti lieti,
quando “La Maria Risorta filava docile, con il trinchetto e la maestra gonfie
di un buon Maestrale, sopra un mare turchino e tutto leggermente ondulato che
si estendeva a perdita d'occhio, senz'altro rumore che uno sciaguattar lieve
contro i fianchi robusti e il cigolio sordo delle scotte dei ghindazzi”. Attese
trepidanti sui moli di donne e anziani. “Venne la notte; e molti poveri cuori
aspettavano ancora, mentre un soffio di disperazione passava sulle casupole del
piccolo porto, e continuava sui moli quella vedetta angosciosa, tra il sibilo del
vento e il boato del mare”.
Anche a noi che alziamo la vela per piacere, i venti
insegnano ogni giorno qualcosa: pazienza, determinazione e rispetto, prima di
tutto. Cazzando e lascando, alzando e ammainando, cerchiamo un'antica armonia
tra la vela e l'aria, indispensabile per portare la nostra barca e i nostri
sogni lontano.
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domenica 12 maggio 2013
Insulomania
STROMBOLI
Le isole Eolie sono il luogo d'elezione di due antiche passioni dell'uomo, l'insulomania e l'anemofilia. Fin dalla notte dei tempi gli appassionati di isole e di vento sognano di raggiungere quest'arcipelago. “Celebri case di Eolo”, per Omero, “patria dei nembi, ... luoghi pregni di austri furenti”, per Virgilio, “isole Lipari ... sette di numero” più prosaicamente per Strabone, che con geografica attenzione le elenca tutte, da Lipari, la maggiore a Strongyle, l'odierna Stromboli.
Di forma rotonda, dal significato del nome antico, “anch'essa caldissima, ma, rispetto alle altre, ha fiamme meno vigorose, anche se più brillanti”, c'informa sempre l'illustre geografo greco. Ed è proprio questa straordinarietà, a fare di Stromboli di notte uno dei più luminosi fari naturali del Mediterraneo e di giorno un maestoso segnavento.
...
Ma quella di Stromboli non è solo una storia di terremoti, lave e lapilli. L'isola è da millenni abitata ed è scalo voluto o occasionale, comunque utilissimo sulle rotte di collegamento tra le coste campane e quelle siciliane. La ricchezza della sua terra scura ha favorito fin dall'antichità l'agricoltura e in modo particolare i più tipici frutti insulari mediterranei: uva, oliva e fico. Altrettanto importante e antica è la pesca che ferve nelle sue acque soprattutto nel periodo primaverile ed estivo. A nordest dell'isola “si raccomanda alle navi di passare a non meno di 5 miglia a largo del faro dello Scoglio Strombolicchio, per non disturbare la pesca ed evitare danni agli attrezzi”, si legge in un vecchio portolano di quarant'anni fa. Strombolicchio è il fratellino minore dell'isola, un romito scoglio “con pareti a picco” che secondo la leggenda sarebbe il tappo del vulcano, sparato in aria da una violentissima eruzione. Sulla sua irta sommità dagli anni Venti del Novecento risplende la luce di un faro: tre lampi bianchi in un periodo di quindici secondi.
...
La terra di Dio, parafrasando il titolo del film girato sull'isola da Roberto Rossellini, ha continuato ad attrarre e affascinare geografi, naviganti, registi, poeti e artisti, anche in tempi recenti. Forse perché a Stromboli, come in nessun altro luogo del Mediterraneo i quattro elementi si sono fatti isola. Lì acqua, aria, terra e fuoco stanno insieme in un sodalizio di insuperabile bellezza.
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lunedì 29 aprile 2013
Anemofilia
Pubblico di seguito uno stralcio della recensione al mio "Anemos. I venti del Mediterraneo", scritta da Sara De Giorgi per il Centro Interuniversitario Internazionale di Studi sul Viaggio Adriatico.
Il Centro, diretto da Sanja Roic con il coordinamento scientifico di Giovanna Scianatico, oltre a un'intensa attività di ricerca sull'odeporica adriatica con il contributo di studiosi di entrambe le sponde, ha realizzato una ricchissima biblioteca digitale con molti testi in formato elettronico disponibili gratuitamente.
Il Centro, diretto da Sanja Roic con il coordinamento scientifico di Giovanna Scianatico, oltre a un'intensa attività di ricerca sull'odeporica adriatica con il contributo di studiosi di entrambe le sponde, ha realizzato una ricchissima biblioteca digitale con molti testi in formato elettronico disponibili gratuitamente.
Il testo di Fabio Fiori intitolato
Anemos: i venti del Mediterraneo è, a detta dell’autore, un
originale e innovativo «almanacco eolico, un diario di bordo,
compilato pazientemente negli anni, in cui le date hanno lasciato il
posto agli otto petali della rosa dei venti, con qualche altra
necessaria anemografia storica, geografica, letteraria e pittorica».
Fiori, ricercatore e insegnante, appassionato di mare, vela e nuoto,
compie un singolare viaggio affascinante e poetico tra miti e storie,
di ieri e di oggi, che hanno per oggetto i venti del Mar
Mediterraneo. Consapevole dell’originalità del suo lavoro, attinge
a piene mani da una tradizione che ha a che fare con manuali di
navigazione, carte nautiche e antiche ‘rose dei venti’.
All’inizio dell’opera, Fiori definisce il termine anemofilia,
sostenendo che gli anemofili, coloro che amano il vento, ricevono da
esso vitalità, sicurezza, slancio e buon umore. In più, sostiene
che i venti hanno direzione, intensità, temporalità e che
possiedono, da una parte, qualità oggettive, legate a meteorologia e
geografia dei luoghi e, dall’altra, qualità soggettive, memorie di
esperienze individuali e collettive. Nella plurimillenaria storia del
Mediterraneo sono «protagonisti principali o secondari, mai casuali,
di una suggestiva mitologia e di un’ampia letteratura»: da qui la
necessità anche del termine anemografia. Nella mitologia greca vi è
Eolo, che è il custode dei venti per volere di Zeus e che decide se
arrestarli o eccitarli: è lui che offre una scorta a Odisseo,
fornendogli tutti i venti ululanti. Dal punto di vista etimologico,
vento deriva dal latino věntum, termine ampiamente diffuso nelle
lingue indoeuropee. E sono tanti gli autori, poeti e scienziati,
storici o filosofi, che hanno provato e dare una definizione alla
parola vento. «Il padre filosofico del vento», o per essere più
precisi, dell’aria, è Anassimene di Mileto. L’aria è un
principio vitale, secondo Anassimene, e da essa deriverebbero, per
rarefazione e condensazione, gli altri tre elementi costitutivi del
cosmo: acqua, terra, fuoco.
…
Al termine della lettura del testo di
Fiori, ci si accorge di aver imparato molto: il volume offre una
meticolosa ricostruzione di un ‘viaggio letterario’ affascinante,
che ha come protagonisti principali i venti del Mar Mediterraneo e
che affronta, con una prospettiva singolare, un tema fondamentale
della letteratura adriatica odeporica, quello del rapporto tra l’uomo
e il mare.
giovedì 14 marzo 2013
Il nostro mare quotidiano
Pubblico una parte
del racconto scritto per
il nuovo numero della
rivista Lettera Internazionale
(n.114) dedicata ai
difficili rapporti tra i
paesi europei, che stanno
fuori e dentro l’Unione
Europea, tra cui quelli
che si affacciano
all’Adriatico.
Appartenenza
adriatica
Contro l'identità, per
un'appartenenza adriatica.
Anche per testimoniare
quest'idea ogni giorno nuoto e navigo, cammino e ascolto, leggo e
scrivo, imparando una parola delle lingue dell'altra sponda,
raccontando una storia che l'onda regala. Costruisco così
quotidianamente un'appartenenza, sostituendo ogni tanto qualche corso
di fasciame malandato a quella fragile arca chiamata Koiné
adriatica, dove sono imbarcato come murè.
Una nave antichissima che oggi deve affrontare anche la tempesta
Krísis, una dura depressione con il minimo
barico proprio sul Mediterraneo orientale. Per fortuna non sono solo,
anzi in questi decenni ho conosciuto a bordo abili marinai,
comandanti, cartografi e maestri d'ascia. Gente di
mare che parla lingue diverse ma che è accomunata dalla
passione per l'Adriatico. Sono concordi nel credere che la sicurezza
della navigazione dipenda dalla coesione di tutto l'equipaggio,
dall'ultimo dei mozzi al primo dei comandanti.
La Koiné
adriatica per millenni si è mossa grazie alla spinta dei
remi e dei venti. Gli storici ci ricordano che il primo è
stato quello greco, che ha riempito vele mitiche, di Giasone,
Diomede, Antenore e Odisseo, portandoli in isole reali e fantastiche,
come le Elettridi e Absirto, le Diomedee e Ogigia. Lo stesso vento
ha mosso navi reali, cariche di genti, merci e culture, verso il
Salento, poi più a nord fino a Zara, Ancona, Spina, Adria, che per
Strabone diede anche il nome al Golfo. Nei secoli successivi il vento
è girato e si sono susseguiti quello romano, bizantino, veneziano,
turco e asburgico. Poteri militari, politici ed economici che hanno
imposto egemonie culturali, secondo la definizione di Sergio Anselmi.
Ma chi ha navigato sa che l'Adriatico, come e più degli altri
mediterranei, è un mare in cui i venti sono bizzarri, a lunghe
bonacce seguono violente tempeste. Così anche la fragile Koiné
adriatica qualche volta ha navigato con venti favorevoli,
altre volte è stata sbattuta da burrasche violente, di direzione
variabile.
…
Fuor di metafora, credo
che la vera sfida culturale e politica delle genti adriatiche sia
sostituire alle identità nazionali o addirittura regionali proprio
un'appartenenza adriatica.
Se il XX secolo è stato
il secolo dei nazionalismi, in cui il mare era una confine, il XXI
secolo può rappresentare invece un'occasione per rinnovare
l'integrazione, in cui il mare ritorna ad essere visto e vissuto come
pontos, collegamento tra le opposte sponde, geografiche,
religiose e culturali.
Questi anni possono
quindi rappresentare un'occasione per riscoprire e aggiornare la
koiné adriatica, in uno spazio finalmente europeo e condiviso. Senza
dimenticare però che, malgrado i drammatici rivolgimenti di fine
secolo, l'Adriatico è l'unico vero mediterraneo d'Europa che non lo
è ancora politicamente per intero. Alla frammentazione balcanica si
contrappone la novecentesca incapacità italiana ad aprirsi sul mare
e l'altrettanto duraturo isolamento albanese. A ciò vanno poi ad
aggiungersi i nuovi interessi tedeschi e russi, sia lungo le coste
orientali che occidentali. A riguardo non è necessario essere
esperti di economia o geopolitica, basta frequentare i porti di
Lignano, Rimini e Bari o quelli di Pula, Dubrovnik e Budva.
Senza retorica dobbiamo
quindi constatare che l'Adriatico è un mare che ancora divide genti
e culture, mentre al largo scorrazzano le
economie, spesso piratesche. Un mare che è comunque lo sfondo
naturale, l'habitat direbbero gli ecologi, comune di milioni di
persone che popolano le rumorose rive occidentali e quelle silenziose
orientali. E' questa una delle tante duplicità adriatiche,
emblematica di una condizione ambientale più generale. Perché
l'Adriatico è, a seconda delle stagioni, un gelido e nebbioso mare
settentrionale o un caldo e luminoso mare meridionale, perché sulle
sue acque si scontra la fredda e secca Bora con il tiepido e umido
Scirocco, perché c'è una divisione netta tra un occidente sabbioso
con acque torbide e un oriente roccioso con acque limpide.
…
La rotta adriatica è
lunga e pericolosa, richiede uno sforzo fisico e mentale, ma come
ogni viaggio vero e faticoso regala forti emozioni e piacevoli
incontri. Predrag Matvejević, l'Omero balcanico che è partito
proprio dall'Adriatico per raccontare magistralmente il Mediterraneo,
continua a incoraggiarci a scoprire questo mare dell'intimità.
Prendendo il largo,
mettendo la prua verso l’orizzonte marino, non dimenticando di
portare con noi qualche buona lettura, ma anche immagini e musiche
capaci di emozionare, potremo forse un giorno trovare la nostra
sognata Adriatica.
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sabato 2 marzo 2013
Incontri
Incontri del Mediterraneo
Lunedì 4 marzo 2013, ore 21
Museo della Città di Rimini
MEDITERRANEO OGGI
tra primavere arabe e crisi greca
incontro con Lucio Caracciolo (direttore di LIMES)
modera Fabio Fiori
Sono giorni, settimane, mesi, anni,
secoli, millenni che si combatte lungo le sponde del Mediterraneo.
Non a caso forse la sua storia scritta incomincia con la cronaca di
una lunghissima guerra. Oggi in Siria, a Gaza e in Algeria, senza
dimenticare la crisi greca. Ieri l'Egitto, la Libia e la Tunisia.
Solo una decina di anni fa in Kosovo, l'ultimo dei conflitti della
ex-Jugoslavia che hanno insanguinato negli anni Novanta del Novecento
le rive adriatiche. L'elenco si potrebbe dettagliare e prolungare,
completandosi con le infinite tragedie dei migranti che da decenni
hanno trasformato il Mediterraneo in una delle più sanguinose
frontiere del mondo. Ma questo mare, malgrado tutto, non è solo uno
spazio di guerra.
Allora “Che cos'è il Mediterraneo?”,
prendendo a prestito la domanda che si faceva mezzo secolo fa lo
storico francese Fernand Braudel. Quesito apparentemente banale se ci
si accontentasse dei caratteri geografici o al contrario insolubile
se si volessero considerare tutte le plurimillenarie vicende
culturali.
Braudel scrive che il Mediterraneo è
“Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi.
Non una mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una
serie di civiltà accatastate le une sulle altre”. Ed è proprio
questa complessità, quest'eterno “accatastarsi” che fa del
Mediterraneo un unicum, nel bene e purtroppo nel male. Innegabile è
il suo fascino e la sua forza attrattiva, come altrettanto evidenti e
drammatici sono i suoi problemi. Geopolitici e ambientali, economici
ed ecologici. Rimanendo in Italia, emblematico è il caso eclatante
dell'ILVA di Taranto, dove il conflitto tra diritti del lavoro e
della salute, hanno mascherato e continuano a mascherare logiche
predatorie, a discapito di uomini e ambiente. Il tutto in riva a un
Mediterraneo lontanissimo da Bruxelles e purtroppo anche da Roma. A
riguardo basta sfogliare agende e programmi elettorali per verificare
la completa disattenzione a problemi e potenzialità di questo mare,
del nostro mare quotidiano.
…
Negli anni Trenta del Novecento, Albert
Camus, un altro grande intellettuale delle due rive, algerina e
francese, si chiedeva se è “possibile una nuova cultura
mediterranea”. Noi con lui, malgrado tutto, ci ostiniamo a credere
di sì e cerchiamo perciò di alimentare il dialogo tra le diverse
sponde, tra il Nord e il Sud, tra l'Occidente e l'Oriente, certi
della vocazione mediterranea dell'Italia e della nostra inesausta
voglia di navigare liberamente tra le onde e le culture, altrettanto
mutevoli e affascinanti. Una vocazione che in Romagna si sostanzia
non solo nel turismo o nel traffico mercantile (Ravenna, pur
scontando le difficoltà del momento, rimane tra i primi dieci scali
commerciali italiani) ma anche nelle produzioni agricole mediterranee
per eccellenza, quali il vino e l'olio, e in quelle pescherecce,
visto che nei mercati ittici di Cesenatico, Rimini e Cattolica si
commercializzano ogni anno migliaia di tonnellate di pesce di
primissima qualità. Economie che si sostanziano anche grazie al
lavoro di tanti uomini che hanno dovuto attraversare pericolosamente
il mare e affrontano ogni giorno le insidie altrettanto infide della
burocrazia e dei preconcetti.
Riprendendo le parole di Camus, “Il
Mediterraneo che ci circonda è al contrario un paese che vive, pieno
di giochi e sorrisi”, quelli che ci accolgono nei porti dove
arriviamo, quelli che cerchiamo di rivolgere a coloro che arrivano
dal mare. Certi che i tanti problemi di questi giorni e quelli dei
prossimi anni si potranno meglio affrontare promuovendo il dialogo e
non i pregiudizi, favorendo l'incontro e non lo scontro.
Estratto dell’articolo pubblicato
sulle pagine culturali del Corriere Romagna, 30 gennaio 2013.
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giovedì 21 febbraio 2013
Anemofilia
Sabato 23 febbraio 2013, alle ore 19
la trasmissione “Il Cantiere” di RAI Radio Trehttp://www.cantiere.rai.it/
trasmetterà “Il vento scrive”, ideato, scritto e diretto da Fabio Fiori, con suoni registrati in presa diretta, musiche originali e composizione sonora di Marco Fagotti.Si tratta di un racconto sonoro a più voci, dedicato al vento, il più invisibile degli elementi atmosferici. Invisibile ma potentissimo, anemos del Mediterraneo. Fin dalla notte dei tempi il vento ha spinto navi cariche di merci, uomini e culture. Non a caso per i Greci i venti erano Anemoi, dèi, bizzarri e umorali, comunque indispensabili e venerabili. Otto quelli principali, che in Mediterraneo hanno un nome proprio, altrettanti i secondari tra cui la terribile Bora, sedici le quarte. Insieme formano in più prezioso dei fiori del marinaio: la rosa dei venti.Un viaggio sonoro e narrativo che si muove sulle tracce del vento o, più semplicemente, un'eolica dichiarazione d'amore che invita alla riscoperta del più imprevedibile degli agenti atmosferici, che muove foglie e fantasie, onde e sogni.
Buon ascolto e buon vento!
martedì 19 febbraio 2013
Insulomania
VENTOTENE
L'isola non è solo uno spazio geografico reale, ma anche immagine figurata altrettanto suggestiva. E se le prime sono state tutte scoperte e mappate, le seconde continuano a emergere e scomparire, con una velocità superiore alle capacità di qualsiasi cartografo, compreso il mediamorfico nuovo titano: Googlemappeteo. Isole etnografiche, politiche, linguistiche, sono paradossalmente il risultato, anzi la reazione alla globalizzazione, economica innanzitutto, seguita poi da quella sociale e culturale. Così acquistano nuovi significati anche il verbo e l'aggettivo derivati da isola, perché sempre di più si moltiplicano le declinazioni di isolare e i significati di isolato.
Ci fu un tempo, relativamente vicino a noi, in cui isola era sinonimo di
confino, spesso di tipo politico. In epoca fascista sono stati oltre duecento i
luoghi di soggiorno obbligato e di questi le isole erano quelli più temuti. Tra
queste Ventotene, “ambiente d'eccezione”, nell'accezione più ampia, riprendendo
le parole di tre confinati illustri:
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni .
...
Ma la storia di quest'isola
è storia di confino da tempi remoti, un isolamento addirittura imperiale,
cercato nel caso di Augusto e subito in quello della figlia Giulia.
Per noi che non navighiamo su negre navi e le isole non sono
confini forzati, Ventotene è un sogno ricorrente. Legati all'albero dei doveri
quotidiani, proviamo almeno a stemperare la nostra insulomania sfogliando
portolani e srotolando carte, guardando fotografie e leggendo racconti, antichi
o recenti, comunque affascinanti, come “L'isola riflessa” di Fabrizia
Remondino, in cui Ventotene è la vera protagonista.
L'articolo completo è pubblicato sul numero di febbraio 2013 di BOLINA
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mercoledì 13 febbraio 2013
Anemofilia
Il Cantiere di RAI Radio Tre, in occasione della Giornata mondiale della radio promossa dall'Unesco il 13 febbraio 2013, propone cinque sonori estratti dai 'cantieri' andati in onda e in prossima programmazione, tra cui il nostro "Il vento scrive", che andrà in onda nel marzo 2013.
Ascolta la clip
Buon ascolto e buon vento!
Ascolta la clip
Buon ascolto e buon vento!
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venerdì 8 febbraio 2013
Incontri
Lunedì 11 febbraio 2013, alle ore 17.00
Accademia di
Belle Arti di Ravenna
via delle Industrie 76
Fabio Fiori apre il ciclo di conferenze "OPEN GARDEN frammenti di paesaggio dall'Accademia alla città…per unavegetazione d’idee in movimento" dedicate al tema del paesaggio e del giardino
rivolte agli studenti dell'Accademia di Belle Arti ma aperte alla città.
Titolo dell'incontro
Spaesaggio italiano. Elogio dell'erba cattiva che, per fortuna, non muore mai
Un dialogo sullo spaesaggio italiano a partire
dal giardino incolto di casa, fino alla periferia anonima della nostra città. Uno
sguardo attento sui luoghi del quotidiano, dai parcheggi degli ipermercati ai
margini stradali, dai capannoni artigianali alle campagne industriali.
Confrontando un campo fotovoltaico con uno di girasoli, un generatore eolico
con un cipresso, a partire dalla lezione di alcuni maestri contemporanei della
parola: Gianni Celati, Eugenio Turri e Gilles Clement.
mercoledì 16 gennaio 2013
Il nostro mare quotidiano
Sulle pagine del popolare mensile
nautico Bolina di Dicembre 2012, il direttore Alberto Casti ha
pubblicato dieci idee per uscire dalla crisi del settore. Crisi
manifestatasi in tutta la sua gravità all'ultimo Salone Nautico di
Genova, “la più desolante nella storia dell'importante kermesse
nazionale dedicata alla nautica”. Proposte riguardanti le tariffe
portuali, le concessioni demaniali, il recupero delle strutture
dismesse, gli scivoli d'alaggio, i posti per le barche in transito, i
controlli, i certificati, le tasse e le assicurazioni. Proposte che
ho letto con grande attenzione e che condivido.
Prendendo spunto da questa riflessione,
ho scritto una lettera che la stessa rivista ha pubblicato nel numero
di Gennaio 2013, condividendo e sottoscrivendo le mie tre semplici
idee, che qui rilancio.
Circa la crisi del settore nautico,
vorrei evidenziare che nessuna scelta amministrativa, per quanto
oculata, potrà sortire effetti positivi di lunga durata senza un
ancor più urgente investimento per la cultura del mare, da sempre
misconosciuta in Italia. Un investimento, ancor prima che economico,
di tipo politico e civile. Un investimento che riguarda innanzitutto
ognuno di noi. Sì, ognuno di noi diportisti, ognuno dei nostri
circoli e delle nostre associazioni. Credo infatti che se anche
qualcuna delle nostre richieste verrà accettata, non cambierà
sostanzialmente l’atteggiamento antimarinaresco del Paese. Per
ribaltare invece questa situazione dovremmo provare a renderci
credibili e non corporativi, impegnandoci concretamente per
diffondere la nostra passione a un pubblico più ampio e,
soprattutto, più giovane. Senza dimenticare che il mare è il più
esteso bene comune d’Italia.
Come? Non demandando ad altri il
compito ma, impegnandoci fin da subito personalmente e all'interno
dei circoli.
Per non fare di questa lettera
un’astratta, seppur sentita, dichiarazione d'intenti, provo a
elencare tre idee concrete:
- spalancare i cancelli dei circoli e delle darsene, per permettere a tutti, e soprattutto ai più giovani, di avvicinarsi alle barche e alla navigazione (io ritengo per altro che le piazze, come le banchine portuali, sono più sicure quando vengono frequentate, anziché recintate);
- iscrivere gratuitamente i ragazzi ai circoli e investire nelle scuole di vela e di remo, non solo con finalità sportive, prevedendo l'acquisto di derive, canoe, windsurf, ecc. da mettere a disposizione sempre gratuitamente per i più giovani;
- realizzare in ogni circolo una festa annuale del mare, magari in tutta Italia in concomitanza con la Giornata Europea del Mare (fine maggio); qualcosa che assomigli alle “notti bianche” della cultura, un “giorno blu” in cui le sedi dei circoli e le barche dei soci si aprono al pubblico, prevedendo uscite in mare e iniziative dedicate alla cultura marinaresca.
Potrei allungare l'elenco, declinandolo
alle istanze della piccola nautica, ma voglio limitarmi a queste tre
azioni che non richiederebbero particolari risorse, se non la volontà
di ognuno di noi di dedicare qualche ora di tempo con la propria
barca e una percentuale irrisoria della quota d'iscrizione annuale al
circolo, alla diffusione della cultura del mare. Azioni che non
sarebbero solo un importante atto d'altruismo, ma che permetterebbero
di dare più forza alle nostre sacrosante richieste di andar
tranquillamente per mare.
Buon vento, libertario.
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