Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

venerdì 30 dicembre 2011

Il nostro mare quotidiano


Una parte de "Il nostro mare quotidiano. Rumori, suoni, voci" di Fabio Fiori e Marco Fagotti verrà ritrasmesso sabato 31 dicembre 2011 alle ore 19 all'interno della trasmissione "Il cantiere" di Radio Tre.
Buon ascolto e buon vento!

venerdì 23 dicembre 2011

Biblioteca di mare e di costa



E' in libreria la rivista Lettera Internazionale (n.109, 2011), completamente dedicata al Mare Adriatico.
Crocevia Adriatico: Botta, Cassano, Farinelli, Garzia, Godelli, Guagnini, Jančar, Kiš, Pressburger, Scianatico
Geopolitica delle emozioni: Andrić, Bavčar, Fiori, Matvejević, Pahor, Roić, Serino, Tomizza
Sguardi tra le sponde: Bazzocchi, Bruno, Culi, Gjurcinova, Heinichen, Martino, Romano, Roth


Tessere

Mollo gli ormeggi, della vela, della parola.
Le acque e le arie sono note, per quanto possano esserle quelle adriatiche, ai tempi di Google Earth. Sì, perché navigare e scrivere hanno molte difficoltà comuni, ma possono disvelare sempre infiniti orizzonti. Disvelare! eccola qua la prima affinità inaspettata, il primo annodarsi di vela e parola. Adesso non mi interessa seguirne a ritroso la rotta etimologica; devo pensare a cime, scotte e drizze, a randa, fiocco e timone. Anche perché a bordo non ho la connessione internet, sono libero almeno per qualche giorno, e il posto dei vocabolari è occupato dai portolani.
Lascio il porto di Ravenna sotto un cielo stellato d'agosto. Una leggera brezza di Scirocco riempie l'unica vela di prua aperta. Con la barca appena inclinata navigo tra le due lunghissime dighe foranee. Prolungano il canale Candiano fino al mare aperto, creando un cordone ombelicale che lega la città alla madre, alle materne acque adriatiche. Già a poche miglia dalla costa sono immerso in un buio antico, in cui la luce dei pianeti si riflette sulle acque mosse appena dalla bava. E' la stessa luccicante oscurità della notte di Galla Placidia; allo zenit della cupola imperiale splende da millenni una croce latina, sopra di noi il Triangolo estivo, segnato da: Vega, Deneb e Altair.
[...]
Intanto a poppa si intravede ancora il fiammeggiare delle raffinerie ravennati, prometeico emblema novecentesco. Il “Deserto rosso” appare molto più lontano delle quindici miglia che mi separano dalla terraferma, dei cinquant'anni trascorsi dall’Italia descritta da Michelangelo Antonioni. La forza incandescente di quel sogno industriale, un simbolo di quegli anni che apre la narrazione filmica, sembra oggi una fiammella cimiteriale, ricordo di un’età breve se commisurata sulla scala del tempo millenario adriatico.
Lo Scirocco rinforza, sull’acqua il primo spumeggiare delle onde dice che il vento supera dieci nodi. Riduco la randa; manovra complessa su una piccola barca quando si naviga da soli, ancor più di notte. La fatica vale la tranquillità che segue. I pensieri ritornano alla volta musiva e a quel leone di San Marco che immagino nell’angolo di sudest. Dovrò tornarci ancora nella scintillante grotta di Galla Placidia, per togliermi questa curiosità. Se il mare non è una frontiera ma un varco, uno spazio acqueo libero da confini economici e nazionali, allora in Adriatico la porta è una sola ed è aperta proprio a sudest. Di lì sono usciti romani, veneziani e austriaci, di lì sono entrati greci, bizantini, ottomani. L’ingresso si apre o si chiude a seconda di umori, interessi, circostanze della storia; lì rimane comunque, nel disegno più grande della natura.
Nella carta di bordo, dove ho disegnato la rotta per Parenzo, il segmento di graffite per 55° che attraversa il braccio di mare interseca decine di altre rotte, cancellature, punti e annotazioni; tracce di altrettante navigazioni. Settanta miglia separano Ravenna dalla penisola che sta dall’altra parte del mare.
[...]
Negli anni, per me, la traversata nautica o narrativa, sotto un cielo limpido estivo o nuvoloso autunnale, spinto da arie tiepide primaverili o pungenti invernali, è un rito laico, un’eterna celebrazione di scoperta.
Tessere rotte, sulle acque e sulle carte. Tessere racconti, delle rive e delle genti.
Solo i tempi lunghi, fatti di gestualità e fatica, l’immersione sensoriale vissuta nell’incedere delle stagioni, possono rivelare qualcosa di questo seno mediterraneo, insieme marino e materno.
[...]

martedì 6 dicembre 2011

Biblioteca di mare e di costa



“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Sidi, Khaled, Alaa Abdel, Wael, Ahmed, Nawara, non sono solo alcuni dei nomi dei ragazzi morti o che lottano per la libertà lungo la riva meridionale del Mediterraneo. Sono i nomi anche degli amici dei nostri figli, dei nostri compagni di lavoro, dei nostri alunni, anche qui in Italia. Grazie al loro lavoro le barche continuano a pescare, le campagne a produrre, i cantieri a lavorare, mentre nelle scuole ogni giorno si sperimentano incontri e integrazione tra le giovani generazioni, tra gli italiani di domani. Certo, come ogni fenomeno migratorio di grandi dimensioni, le dinamiche sono complesse e problematiche, ma tutti dovremmo interrogarci sulle vicende mediterranee, che ci riguardano da vicinissimo.
“Siamo tutti Khaled Said”, urlavano solo qualche mese fa i ragazzi di Piazza Tahrir al Cairo. Parte dai nomi, dalle biografie e dalle storie dei giovani protagonisti della rivolta tunisina, egiziana e libica, il racconto di Franco Rizzi. Professore ordinario di Storia dell'Europa e del Mediterraneo presso l'Università di Roma Tre, autore di “Mediterraneo in rivolta” (Castelvecchi, pp, 249, € 15), che ha innanzitutto il pregio di aiutarci a guardare dentro fatti recentissimi, ancora in corso e dall'esito incerto. L'unica certezza è che non possiamo diventare vittime della nostra ignoranza, ossia del rifiuto di ascoltare, riflettere e capire quello che sta accadendo, come ci evidenzia Lucio Caracciolo nella prefazione. Lo stesso avverte subito il lettore che Rizzi non è neutrale, prendendo le parti dei rivoluzionari, ma lo fa con argomenti credibili e originali, attraverso un'analisi storica, sociologica ed economica. Per Rizzi quelle che stanno attraversando il mondo arabo sono scosse di assestamento violente, di quel gigantesco terremoto che fu la colonizzazione europea del XIX e XX secolo. C'è un filo rosso che unisce passato e presente, antiche politiche di sfruttamento rinnovatesi grazie a governi composti da “vecchie cariatidi diventate nel tempo sentinelle e guardiani degli interessi dell'Occidente”. Ristrette oligarchie si sono arricchite per oltre mezzo secolo a discapito di masse sempre più povere, anche se la spinta economica non è stata l'unica causa della rivolta. Non a caso tanti protagonisti hanno evidenziato come quella tunisina non sia stata una “rivolta del pane”. Stereotipi e semplificazioni non aiutano a comprendere le motivazioni e le aspettative dei rivoltosi, così come è necessario non riunire in un'unica analisi tutte le vicende, molto diverse tra loro, sia per trascorsi storici che per situazioni attuali. Le diverse città, che sono state e sono teatro delle sommosse, sono lontanissime tra loro, non solo geograficamente. Bisogna ricordare che Tunisi è molto più vicina a Roma che al Cairo, Damasco ad Atene che a Tripoli. Perciò Rizzi affronta le singole vicende singolarmente, con particolare riguardo a Tunisia, Libia ed Egitto. Una lontananza che è stata ridotta dalle giovanissime generazioni grazie all'uso sapiente delle nuove tecnologie, veicolate attraverso la rete. Inaspettatamente, almeno per i precedenti governi, gli attivisti arabi hanno saputo abilmente utilizzare il web, aggirando i media tradizionali, che erano al servizio o oscurati dai vecchi tiranni.
Visto che il libro si chiude con l'analisi dei fatti del marzo scorso, ci auguriamo che Franco Rizzi riesca ad aggiornarci sui recenti, tumultuosi sviluppi delle vicende, dalla caduta di Gheddafi alle elezioni in Tunisia ed Egitto, fino alla tragica repressione in Siria. Un ulteriore approfondimento per conoscere meglio i nostri vicini di casa, per capire le loro ansie e difficoltà che, per certi aspetti, non sono molto diverse dalle nostre.

lunedì 21 novembre 2011

Incontri



SABATO 26 NOVEMBRE 2011 h 21.00
PALAZZO DEL TURISMO RICCIONE (RN)

Nell'ambito degli Incontri del Mediterraneo, dialogherò con Franco Rizzi sui movimenti libertari che stanno scuotendo la costa meridionale del Mediterraneo, a partire dal suo ultimo libro “MEDITERRANEO IN RIVOLTA”.

martedì 15 novembre 2011

Adriatico mare d'Europa?



E' stato pubblicato oggi sulle pagine culturali Corriere Romagna un'anticipazione del mio intervento, nell'ambito delle iniziative a sostegno della candidatura di Ravenna a Capitale Europea della Cultura nel 2019. L'incontro, a cui prenderà parte tra gli altri Predrag Matvejevic è intitolato “Verso il mare aperto” e sarà coordinato da Franco Masotti. Sabato 19 novembre 2019 a Artificiere Almagià, via dell'Almagià 2, alle 16,45 a Ravenna.

Dieci anni fa Eugenio Turri dava alle stampe l'ultimo volume della trilogia “Adriatico Mare d'Europa”. Un lavoro enciclopedico, dotato anche di un ricchissimo apparato iconografico, che attraverso il coinvolgimento di decine di studiosi delle due sponde faceva il punto sulla cultura, intrecciatasi con la geografia, la storia e l'economia, di uno degli “spazi problematici d'Europa”. Ricordiamo che da pochissimo si erano concluse le sanguinose guerre balcaniche, così come recentissimo era l'epilogo della crisi albanese, mentre sul versante italiano l'Adriatico era ancora guardato innanzitutto come un pericoloso confine da presidiare e difendere. Perciò nell'introduzione all'ultimo volume, Turri si interrogava sui tratti che accomunavano l'Adriatico e, con l'eccezione del turismo balneare, concludeva affermando che “come spazio organico dell'Europa, deve ancora essere costruito e valorizzato”.
Cosa è accaduto in questi dieci anni? perché su quel titolo volutamente benaugurante sembra ancora oggi gravare un preoccupante punto interrogativo? perché l'Adriatico, l'unico vero mediterraneo d'Europa, non lo è ancora per intero? Anche per provare a dare risposta a questi rilevanti e problematici quesiti, la candidatura di Ravenna a Capitale Europea della Cultura nel 2019 è una grande occasione.
Nella improrogabile necessità di muoversi verso il mare aperto, prendendo a prestito il titolo dell'iniziativa di sabato prossimo 19 novembre, Ravenna deve ripensare il suo ruolo adriatico. Una riflessione che coinvolge inevitabilmente l'altra città costiera romagnola, quella Rimini che rappresenta storicamente il secondo polo di una riva urbana a doppia polarità. Perché probabilmente solo attraverso una riuscita armonizzazione di questo unico iperpaese costiero, con velleità metropolitane, si potrà riformulare un rapporto armonico con l'Adriatico, con quella grande foresta blu che dà straordinaria e immutata qualità all'orizzonte di levante. Ravenna porto mediterraneo e Rimini spiaggia europea, entrambe ricche di monumenti eccezionali, possono reinventare una adriaticità, meno campanilista e più comunitaria, meno d'identità e più d'appartenenza, solo attraverso una feconda sinergia e una condivisa apertura all'altra sponda. Alle due città si chiede uno sforzo comune per mettere il mare al centro della riqualificazione ecologica, sociale ed economica. Un'operazione strategica di lungo respiro, che non può dimenticare l'importanza e le peculiarità degli altri comuni minori, nodi cruciali di una rete costiera storicamente articolata. Questa lunga riva urbana deve rinnovarsi a partire da un più attento rapporto con il suo grande ambiente naturale, con il mare, non inteso esclusivamente come un'autostrada liquida o come un bordo vasca, funzioni cruciali ma da sole insufficienti. Il mare dovrà essere sempre più accogliente per le merci e gli ospiti, ma per esserlo dovrà innanzitutto essere rivelato a chi ci vive. Senza una moderna riscoperta del mare, attenta non solo alle necessità economiche, ma all'ambiente e alla convivialità, ai piaceri che le acque possono regalare ogni giorno, non si riattiverà neanche l'antico spirito di accoglienza, a navi e culture orientali, a genti e passioni continentali. Se lo sguardo attento di Predrag Matvejevic ha colto nel passato la maggior vicinanza di Ravenna a Bisanzio rispetto a Roma, nel secondo Novecento Rimini è stata per tanti aspetti più vicina a Monaco che a Roma. Questi fecondi rapporti, economici e culturali, sono legati indissolubilmente all'Adriatico che ha avvicinato reciprocamente le acque mediterranee alle terre europee. Il mare è ancora oggi uno spazio in cui sperimentare forme nuove di coabitazione. E se già da solo l'abitare nel senso più profondo del termine è una sfida che ci riguarda personalmente ogni giorno, il coabitare richiede per forza un surplus di energie e si presenta come una partita ancora più difficile e, perciò, più affascinante.
Innanzitutto, mettendo da parte superflui romanticismi o altrettanto pericolose rassegnazioni, vanno ripensate e riqualificate le rive urbane, senza vagheggiare improbabili ritorni a bucoliche dune e pinete, e d'altro canto salvaguardando e mettendo in valore i frammenti di antica natura che si intrecciano con lacerti di nuovo verde, per comporre un prezioso terzo paesaggio marino. E' questo lo sfondo necessario per ridare piacevole vitalità ecologica e lavorativa, trasformando anonime periferie costiere in accoglienti rive urbane. Ravenna e Rimini, condividono difficoltà post-industriali comuni, sia che si tratti di rovine e scorie dell'industria chimica o di quella turistica. Il benessere novecentesco di entrambe le città è costato enormi sacrifici umani e ambientali, e questi ultimi graveranno a lungo sulle sorti delle popolazioni. Sempre di più in futuro la riuscita dei progetti di riqualificazione costiera dipenderà anche dalla partecipazione attiva di chi vive in questa lunga riva urbana che va dal delta del Po al promontorio di Gabicce.
Il più lucido e rivelatore dei sociologi italiani, Franco Cassano, continua instancabilmente a ricordarci che in Adriatico solo una feconda interconnessione tra le rive potrà salvarle dall'anonimato, evitando di trasformarle nelle periferie di una Europa continentale a vocazione settentrionale. L'Adriatico , inteso come grande regione europea, ci chiede di lasciare alle spalle le identità nazionali o addirittura municipali, per valorizzare un'appartenenza comune, in continuo divenire, più attenta a fatiche e piaceri del quotidiano che non alle carte d'identità e alle messinscena identitarie. Perché la storia adriatica insegna che i migliori frutti nascono dalle contaminazioni, basta guardare e ascoltare con attenzione un mosaico ravennate o un bassorilievo riminese, un concerto di Riccardo Muti o un film di Federico Fellini.

giovedì 10 novembre 2011

Incontri



Nell'ambito delle iniziative per la candidatura di Ravenna a capitale europea della cultura per il 2019




19 novembre 2011
ore 16.45
RAVENNA
Artificerie Almagià, via dell’Almagià 2

Verso il mare aperto

con PREDRAG MATVEJEVIĆ
Testimonianze di Alessandro Aresu, Fabio Fiori,
Gustavo Gozzi, Arsenjie Jovanovic,
Svetlana Lomeva, Giuseppe Parrello
Contributi di Antonio Marchetti,
Osservatorio Fotografico
Ospite europeo Nele Hertling
Coordina Franco Masotti

Ravenna e il mare, ovvero un rapporto assai ondivago che percorre la storia di una città che era sì marittima, e comunque città d’acqua, ma che ha fatto del prosciugamento l’epopea del suo territorio. Un tema che si fa meta e che in un groviglio di rotte possibili e impossibili verrà variamente scandagliato e declinato in un piccolo cabotaggio ove si navigherà tra parole, immagini e suoni pescando qua e là idee e suggestioni per la candidatura, tra mitologie e storie contemporanee, miraggi e realtà, visioni interiori e imaginary landscapes, figure e metafore.

lunedì 31 ottobre 2011

Biblioteca di mare e di costa



“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Pietro Spirito, casertano di nascita, triestino d'adozione, è uno scrittore subacqueo, nel significato più ampio del termine. Tanti suoi articoli pubblicati su Il Piccolo di Trieste e alcuni libri sono dedicati a concrete esplorazioni subacquee, che diventano anche il pretesto per immergersi in storie piccole e grandi, note e sconosciute. In questa lunga e appassionata ricerca, i relitti “predicano la caduta di regni e imperi, ricordano la futilità delle aspirazioni umane, rappresentano la dissoluzione dell'io nello scorrere del tempo, la caducità di ogni destino”, come scrive nell'introduzione de “L'antenato sotto il mare. Un viaggio lungo la frontiera sommersa” (Guanda, 2010; pp 200, € 15). Il sottotitolo definisce subito l'area d'inchiesta, lo spazio acqueo dell'avventura, i luoghi delle immersioni, quel Golfo di Trieste che, per chi scende dalla Mitteleuropa, è “un abbaglio blu improvviso e inatteso, un braccio azzurro proteso verso settentrione, il primo casello di un'autostrada che porta dritto all'Africa e all'altra metà del mondo”. Undici capitoli per altrettanti relitti di navi, aerei, velieri, sommergibili, traghetti. Affondamenti misteriosi, come quello del bombardiere B-24, precipitato nell'inverno del 1945 a otto miglia a sud di Porto Buso, vicino Lignano, o epocali come quello del Baron Gautsch, il prioscafo del Lloyd Austriaco colato a picco nel luglio 1914 a ovest dell'arcipelago delle Brioni, vicino Pola. Relitti antichi come la Iulia Felix, una nave oneraria romana del II secolo d.C., più noto come il relitto di Grado, o recenti come il Mojolner, un traghetto incendiatosi e affondato sotto la diga del Porto vecchio di Trieste nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Il viaggio di Pietro Spirito termina sul Molo Audace, uno dei luoghi simbolo di Trieste, anch'esso a suo modo un relitto, “una piattaforma della memoria e dell'immaginario” cittadino e nazionale. Costruito infatti sui resti della nave militare asburgica San Carlo, da cui il molo prese il primo nome, affondata in porto nel 1740, ha rappresentato per secoli il punto di arrivo e partenza delle navi più importanti. Nel novembre 1918 sullo stesso attraccò il cacciatorpediniere Audace che portava in città la bandiera tricolore. Oggi quegli splendidi 246 metri di pietra che si infilano nel mare sono una delle più belle piazze d'Italia, uno dei simboli di un modo insieme antico e nuovo di vivere il mare, il nostro mare quotidiano.

martedì 18 ottobre 2011

Notizie

Lesina (FG), 21 ottobre 2011
"Fatti con l'acqua"
Una tavola rotonda attorno al tema della protezione delle aree costiere e lagunari, del rapporto tra lagune e mare e della storia e della cultura delle genti.
Scarica il programma completo

L'incontro rientra nelle attività del V^ Congresso Nazionale LAGUNET, un'associazione senza fini di lucro e ha per scopo la promozione dello studio degli ambienti acquatici di transizione, ovvero delle lagune, delle zone umide costiere e delle foci fluviali.

lunedì 17 ottobre 2011

Il nostro mare quotidiano

Quando nel marzo 2006 incominciai a lavorare a questo progetto, l'economia sembrava aver ritrovato il suo passo migliore, dopo la battuta d'arresto del 2001. Crescita infinita ed euforia finanziaria erano paradigmi imprescindibili per qualsiasi azione politica. In quella temperie consumistica l'idea dei beni comuni sembrava definitivamente tramontata nell'orizzonte occidentale. Anche la proprietà statale, che è cosa diversa dai beni comuni, scontava l'assedio feroce di quella privata. Una situazione, insieme economica e psicologica, che rendeva il mare e le rive paesaggi ad elevato rischio d'appropriazione indebita.
Lungo le coste mediterranee la pressione antropica, dopo aver sconvolto gli equilibri ambientali, manifestava e manifesta con determinazione la volontà di ridurre il libero accesso di tutti, a vantaggio di pochi. Spiagge, falesie e banchine venivano e vengono continuamente recintate, con il beneplacito o il silenzio-assenso delle istituzioni.
Poi, in conseguenza al crollo economico-finanziario del 2008, improvvisamente almeno nel dibattito pubblico hanno riguadagnato importanza idee eretiche, quali appunto quella dei beni comuni o della decrescita. Volendo elencare solo alcuni degli avvenimenti essenziali, diversi per approccio e filosofia, di questa lenta ma necessaria evoluzione culturale, basterà ricordare l'enciclica del giugno 2009“Caritas in veritate” di Benedetto XVI, il Premio Nobel dato nell'ottobre del 2009 all'economista dei commons Elinor Ostrom, o la recentissima rivolta planetaria degli indignados. In Italia, fondamentale è stata la battaglia vinta sull'acqua come bene comune, nel referendum del giugno scorso. Numerosissimi gli articoli e libri dedicati all'argomento, tra cui la recensione di Roberto Esposito su La Repubblica di venerdì 14 ottobre 2011, a “Beni comuni. Un manifesto” di Ugo Mattei, appena pubblicato da Laterza.
Un'analisi lucida, argomentata e condivisibile, in cui però evidenzio ancora una volta il mancato inserimento del mare tra i beni comuni, status giustamente riconosciuto a boschi e torrenti, per rimanere nel campo ambientale. Eppure insisto sul fatto che in una Penisola con ottomila chilometri di costa il bene comune per eccellenza è il mare, quello che ostinatamente chiamo il nostro mare quotidiano. Una grande foresta blu che sfiora le nostre città o, per meglio dire, la smisurata periferia costiera sorta negli ultimi cinquant'anni. Un orizzonte condiviso da milioni di italiani, che rende ancora più incredibile ed emblematica la svista, anche da parte di intellettuali che da decenni si battono per ridefinire e rivendicare i beni comuni.
Come è possibile che quell'infinito acqueo non lo si riesca a vedere? Come è possibile negare il libero accesso o addirittura l'affaccio alle coste?
Io al contrario credo che queste sciupate rive urbane possano essere riqualificate, anche sociologicamente ed economicamente, in maniera durevole, non effimera, solo se si riuscirà a correggere questa pericolosa miopia, ripensando il mare come valore condiviso e indivisibile. Il mare deve al più presto entrare nel novero dei beni comuni, terzo imprescindibile vertice di un triangolo costituzionale che non può delinearsi esclusivamente su beni privati e, in minima parte, pubblici. E' questo il disegno proposto da Roberto Esposito per “la trasformazione di un mondo che appare sempre meno nostro”, di un mare che è sempre meno nostro.

giovedì 6 ottobre 2011

Il nostro mare quotidiano


E' tempo di Barcolana, è tempo di far vela.
Vela intesa come attività sportiva, come svago lungo un giorno, una settimana, un viaggio. In breve vela da diporto. Quando nel 1969 prese il via la prima Barcolana, era ancora vivo in tutti gli appassionati il ricordo della vela da lavoro, al servizio del traffico e della pesca. Allora “far vela” significava innanzitutto partire nell'accezione marinaresca, ossia navigare. Ancora oggi per altro la locuzione resiste tra i pescatori più anziani e capita spesso di sentir dire, malgrado tutte le barche siano motorizzate da oltre mezzo secolo, “Abbiamo fatto vela (cioè navigato) per due ore, prima di raggiungere il luogo dove sono state calate le reti”. I mille sofisticati dettagli tecnici e le altrettanto numerose implicazioni sportive, non hanno eliminato alcune ritualità. Innanzitutto alziamo una vela, un gesto arcaico con valori anche simbolici perché, consciamente o inconsciamente, ogni volta rinnoviamo un rito di appartenenza. Entriamo a far parte di quella antichissima genia di marinai che hanno fatto vela verso il famigliare Adriatico, il vasto Mediterraneo o l'infinito Oceano. Se, rispetto al passato, differenti sono circostanze, motivazioni e materiali, simili rimangono alcune preoccupazioni. Tutti alzando una vela ci interroghiamo sul vento, su direzione, forza e durata di questo dio umorale, capace di dispensare preziosa grazia o duro affanno. Certo abbiamo satelliti e radar che guardano meglio di noi il cielo ma, in ultimo, la scelta di lascare o cazzare, di tenere tutta la tela o terzarolare, spetta a noi. La vela, piccola o grande, la rotta breve o lunga, chiede sapienza e prudenza, manualità e fatica, tutte qualità antiche.
Della vela il Golfo di Trieste è da tempo immemorabile dimora, anche nella più recente versione diportistica. Lungo e probabilmente lacunoso sarebbe l'elenco di manifestazioni e circoli, timonieri e prodieri, barche e cantieri, maestri d'ascia e progettisti. Ma alcune pagine di romanzi triestini possono restituire se non la storia, alcune emozioni di questa passione marinara. Nei “Ricordi istriani”, di Giani Stuparich, il mare, il remo e la vela sono paesaggi del quotidiano. “La vela impigrisce, - aveva affermato papà, - marinaio che non conosce remi è mezzo marinaio”, si ripete tra sé uno dei protagonisti, che da anni sogna quell'esperienza. “Quanto avevamo sospirato quella vela! Fino allora c'era toccato di faticare sui remi”. La vela è gioia pura, quando i venti sono favorevoli e comunque è quasi sempre infinitamente meno faticosa e più rapida del remo. “Ora finalmente avremmo avuto la vela. Il riposo, la gioia di starsene distesi a paiolo, con la barra del timone sotto braccio, e di sentirsi filare, volare sull'acqua con le ali”. L'amatissima pesca, per quel ragazzo e suo fratello, passarono immediatamente in secondo piano, tanto era l'entusiasmo per l'agognata vela. Poco importa se si trattava di una semplice battella a fondo piatto e non di un guzzo o una passera. Qualche anno dopo, nelle tragiche trincee della grande guerra, i due fratelli ricordavano “sommessamente la nostra barca a vela, le estati passate a Umago. La vela per noi significava riscatto, estro, libertà”.
La vela entra anche in alcune pagine de “L'onda dell'incrociatore”, di Pier Antonio Quarantotti Gambini. E' in uno splendido autunno, in giorni d'ottobre luminosi come quelli appena trascorsi, che Ario, uno dei protagonisti, “prese un'ubriacatura di sole e d'aria marina. Appena poteva, balzava in barca e dava al vento la vela. Era bello scivolar fuori dal mandracchio, tanto veloci e leggeri che nella manovra lo scafo sembrava fuggirgli via”. Bordeggiava dentro il porto per guadagnare il mare libero, che regalava “i sobbalzi, gli spruzzi, le schiaffate dell'acqua a prua”. Le sue avventure adolescenziali sono un continuo intrecciarsi con esperienze marinaresche, in cui la vela e il remo sono fondamentali, non solo nei risvolti sportivi. Gli piaceva uscire solo, “Filava stringendo la vela, come in regata. E spesso, tra mare e cielo, si metteva a cantare”.
Le migliaia di vele di domenica credo sarebbero piaciute a Stuparich e a Quaranttotti Gambini; di certo i loro ragazzi avrebbero cercato imbarco, per condividere le ansie e le gioie sempre nuove che regala il mare e il vento.

martedì 13 settembre 2011

Notizie



Da venerdì 16 a domenica 18 settembre 2011 a Lerici si rinnova l'appuntamento con la letteratura e la cultura del mare. “Lerici legge il mare”, per il terzo anno consecutivo, offrirà a tutti gli appassionati un'ampia vetrina sulle più recenti novità editoriali, oltre a diversi incontri dedicati al Mediterraneo. Nel suggestivo borgo marinaresco attraccheranno anche imbarcazioni con vele al terzo e tradizionali, alcune delle quali ospiteranno presentazioni e dibattiti “in alto mare”. Storie marinaresche di ieri si intrecceranno con quelle altrettanto suggestive, a volte drammatiche, di oggi, componendo un unico grande racconto a più voci.

lunedì 5 settembre 2011

Il nostro mare quotidiano

Oggi sulle pagine del Corriere Romagna riprendo l'analisi fatta in un precedente post, sulla inciviltà che purtroppo contraddistingue molti motonuati italiani. Ma se il mare è di tutti, perché non immaginare e realizzare almeno le "domeniche blu"?

La Riviera Romagnola, spesso all'avanguardia sui temi del loisir balneare, potrebbe promuovere, prima in Europa, le “domeniche blu”. Così come da diversi anni per motivi ecologici, che si rivelano anche splendide occasioni per praticare una diversa mobilità e una più condivisa socialità, si interrompe il traffico automobilistico privato, allo stesso modo si potrebbe realizzare un'iniziativa simile in mare. Vietando la navigazione privata a motore nelle acque costiere, almeno entro 1 miglio dalla costa, lasciando ovviamente canali di accesso ai porti, si restituirebbero le acque ai piaceri della vela, del remo e del nuoto. Si riproporrebbe una modalità insieme antica (si pensi alle splendide immagini in bianco e nero della Riviera della prima metà del Novecento o ai racconti fulgidi dei nonni) e moderna, cioè realmente sostenibile in termini ecologici e umani. Le “domeniche blu”, oltre a un sicuro impatto mediatico non solo nazionale, aggiornerebbero a costo zero l'immagine della Riviera, usurata e segnata dai deliri edonistici avviati negli anni Ottanta, veicolati dalle automobili, amplificati nelle discoteche e oggi purtroppo portati troppo spesso in riva nei discobar se non addirittura in mare dalle moto d'acqua, l'ultima frontiera del consumo privatistico, dell'individualismo motorizzato in salsa pseudo marinaresca. Le “domeniche blu” attendono solo amministratori pubblici e imprenditori balneari capaci di concretizzare e promuovere un'iniziativa economica ed ecologica, innovativa e romantica.

giovedì 1 settembre 2011

Notizie



"Uomini in mare", (fino all'11 settembre 2011, al Mercato Ittico nella zona
Mandracchio al Porto di Ancona) una mostra fotografica sul faticoso e affascinante lavoro dei pescatori. Un interessante sguardo antropologico per immagini di Paolo Zitti.
"Una ricerca durata due anni che mette in luce gli aspetti più duri del mestiere del pescatore e i legami che si stabiliscono tra persone provenienti da paesi e culture diversi. Una quotidianità forzata, difficile, ma anche molto intensa, che si misura con il freddo penetrante, il sole rovente, la forza del mare".
Una mostra che permette l'accesso a un luogo del lavoro di grande suggestione visiva e olfattiva: il mercato del pesce di Ancona. Uno spazio praticamente sconosciuto agli stessi anconetani, vissuto ogni mattina all'alba da uomini e donne che con il loro lavoro rinnovano l'arte piscatoria. Questa ha fatto, e continua a fare, la storia della città, che vanta una delle più importanti marinerie pescherecce d'Italia e del Mediterraneo.
La mostra rientra nel ricco programma del Festival Adriatico Mediterraneo (fino al 4 settembre) che quest'anno ospita Tahar Ben Jelloun, Predrag Matvejevic, Dragan Velikic e altri scrittori, musicisti, artisti mediterranei.

lunedì 29 agosto 2011

Insulomania




ELBA
“Nei paraggi dell'Isola d'Elba, specialmente avvicinandone da N la parte orientale, si possono riscontrare anomalie magnetiche talvolta sensibili per le bussole”. Già questa avvertenza marinaresca è sufficiente per restituire il misterioso fascino di questa grande isola tirrenica.
L'Elba, a seconda delle prospettive, è la più grande tra le piccole isole italiane o la più piccola tra le grandi isole italiane. Per certo è la terza in ordine di grandezza, con i suoi 223 chilometri quadrati. Raffaello Brignetti, scrittore e marinaio, ne ha romanzato le acque e le rocce, gli abissi e le vette. “Sul versante ora in vista l'isola scende grigia fino al mare; le coste sono di granito: sicché hanno riflessi duri e netti. Sotto le coste - e i fondi, anche sono di granito - il mare è di un verde scintillante; più in là è azzurro cupo: fondi certamente di alghe; e ancora, in alcune pianure sottomarine, c'è rena: altro azzurro”. Figlio del guardiano del faro di Capo Focardo, “una lanterna poligonale su torretta grigia in muratura accanto ad una casa bianca ad un piano con tetto rosso”, ci informa il Portolano, fin da ragazzo ebbe un rapporto intenso con il mare, che doveva attraversare ogni giorno a remi per raggiungere la scuola elementare di Porto Azzurro.
Delle mitiche ricchezze metallifere di Ilva prima, poi Aithalia, che ha una musicale assonanza con quello della Penisola, ci ha lasciato una breve ma incisiva immagine Strabone, uno dei padri della geografia. “Un altro particolare curioso di quest'isola è che le cave, da cui si è estratto il metallo, col tempo si riempiono di nuovo, come dicono avvenga anche a Rodi per le cave di pietra, a Paro per il marmo”. Tre isole mediterranee che da millenni alimentano le industrie e le leggende del Mediterraneo.

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Il racconto completo è pubblicato sul mensile BOLINA n. 289 di Settembre 2011

mercoledì 24 agosto 2011

Il nostro mare quotidiano

Estate di sangue, anche in mare! centinaia gli incidenti, alcuni mortali, da nord a sud, dal Ligure all'Adriatico. Come accade ormai da qualche anno le cronache estive raccontano il sovraffollamento delle spiagge e quello assai più pericoloso delle acque. Pericoloso perché le rotte e le baie sono spesso alla moda e quindi ancor più frequentate, ma soprattutto perché, a dispetto dello slogan mussoliniano, non siamo un popolo di santi, né tanto meno di navigatori. I racconti di queste settimane e le esperienze vissute in mare, insegnano che principalmente i motonauti festivi sono spesso, troppo spesso, poco civili e marinareschi. Qualcuno obietterà che non è il caso di generalizzare, né sull'inciviltà di chi utilizza barche a motore, né sull'esclusione dei velisti da questo giudizio negativo. Ma i fatti e i dati, riportati in questi giorni sui quotidiani, dimostrano inequivocabilmente che gli italiani preferiscono il motore alla vela, in un inquietante rapporto di otto a due. Ciò significa che anche in tempi di crisi, di ambientalismo e vita sana (almeno di facciata), solo due italiani su dieci vanno a vela e, ancora meno, a remi. Non c'è caro benzina o ecologismo che tenga, chi sale in barca preferisce girare la chiavetta dell'accensione e ingranare che non alzare una vela e cazzare. Del resto il solo colpo d'occhio in qualsiasi porto o rimessaggio ci dice subito che motoscafi e gommoni, piccoli e grandi, sono quantitativamente di gran lunga la maggioranza.
Se a questa oggettiva predilezione per vizi e virtù motoristiche, aggiungiamo una diffusa ignoranza delle regole della sicurezza in mare, è facile capire i tragici epiloghi estivi. Neanche le più elementari regole di navigazione vengono rispettate: nel diporto le barche a vela hanno la precedenza su quelle a motore, chi ha la dritta ha la precedenza, tre nodi è la velocità massima nei porti, dieci nodi entro i tre quarti di miglio dalla costa, ecc. Anche perché molti dei marinai della domenica hanno difficoltà a sapere cos'è la dritta, il nodo, il miglio, per non dire poi di luci di via, segnali diurni e notturni. Forse alcuni non sanno neanche distinguere la prua dalla poppa. Diventano perciò poco efficaci le brevi campagne di sensibilizzazione alla sicurezza in mare, gli appelli di comandanti, ammiragli e marinai affermati. La diffusione della cultura marinaresca, requisito teoricamente imprescindibile per una Penisola con ottomila chilometri di costa, richiede ben altro tempo e impegno, attivando la rete di circoli e associazioni, di scuole di ogni genere e grado. Merita comunque di essere rilanciato l'invito di Giovanni Soldini, volto a promuovere l'uso della vela, e aggiungiamo del remo, perché è innegabile che quasi sempre “Chi non usa il motore, conosce meglio il mare”. Ma non solo, chi usa la vela e il remo lascia più facilmente a terra i peggiori vizi di oggi: fretta e arroganza. Senza sottovalutare che, andando in mare per svago, dovremmo cercare un armonico rapporto con la natura, meno consumistico nell'accezione più ampia del termine.
Nel nostro mare quotidiano gli unici rumori sono quelli delle onde e dei venti, quelli delle prue mosse da vele e remi. Acque in cui poter nuotare tranquillamente, in cui poter navigare in armonia con gli elementi naturali, rimanendo incantati dal volo di gabbiani, sterne o berte, dalle evoluzioni dei delfini, dal placido andare delle tartarughe.

mercoledì 10 agosto 2011

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


I miei viaggi si nutrono anche di parole altrui, di storie che disvelano mondi nuovi, culture diverse, oggi paradossalmente ancor più difficili da osservare perché sommerse dalla globalizzazione. Perciò prima di partire cerco un fedele compagno, un libro capace di raccontare qualcosa dei luoghi attraversati, delle genti incontrate.
Andando nelle isole dello Ionio ho scelto “Le catene del mare” (2008. Edizioni e/o; pp 280, € 18) di Ioanna Karistiani, un libro che descrive la Grecia di oggi e più in particolare una delle sue antiche genìe, quella dei marinai. E' il protagonista, il comandante Mitsos Avgustìs a presentarsi a nome di tutto l'equipaggio: “il mio paese è il mare, la lingua ufficiale lo swell, la religione di stato una buona bestemmia e la moneta ufficiale gli insulti”, ma attenzione “guai a chi snobba la Madonna e san Nicola, detesto quelli che non temono la morte”. Quella raccontata dalla Karistiani non è una storia di “pirati dei Caraibi”, ma un'avventura epica ambientata su un mercantile dei giorni nostri, con un equipaggio di greci, russi e rumeni che si tengono stretto il faticoso lavoro in tempi di crisi, nomadi “canaglie della fuga”. Del resto, come scrive l'autrice, il “romanzo è nato dai racconti dei marinai delle isole di Andros, Cefalonia, Tinos, Corfù e della città di Chania”. La storia è quella di un comandante che naviga da oltre cinquant'anni e che non ha alcuna intenzione di lasciare il comando dell'amatissimo cargo Athos III, “trentottomila tonnellate, opera viva nera, opera morta rossa, abitanti venti, un villaggio di maschi non riportato su nessuna cartina”. Mitsos è incatenato dallo swell, “il mare mi vuole per sé e io desidero navigare per sempre”.
A questo punto merita un breve inciso la parola swell, che nel libro compare decine di volte e che dà anche il titolo all'edizione inglese. Swell non c'è nui vocabolari italiani e nemmeno nella versione nostrana di Wikipedia. In quella inglese invece troviamo una precisa descrizione del significato oceanografico che, in maniera molto sintetica, potremmo tradurre con “onda lunga”, un moto ondoso che non è causato da un vento locale, quello che i marinai mediterranei chiamano “mare morto”. Ma lo swell raccontato dalla Karistiani è innanzitutto un piacere, che può però diventare una malattia, uno swell che “penetrava nel corpo e si impadroniva del cervello”.
Se in mare il comandante Avgustìs riusciva ad affrontare burrasche e avarie anche ad occhi chiusi, perché ormai a bordo “vedeva con l'olfatto, con l'udito e con il tatto”, a terra la sua vita era un disastro, sia quella famigliare che quella con Litsa, amante di gioventù. In quest'oceano di solitudini Mitsos ha la sicura compagnia solo di Maritsa, “gatto bianco vetusto come un danzatore, le zampette come ballerine rosa, la coda simile all'asta vibrante di un equilibrista sospeso a mezz'aria”, e del cuoco di bordo Siakandaris, più premuroso di una moglie, che lo aiuterà anche ad evitare di trasformare l'ultimo sbarco in un naufragio.
Grazie a queste pagine anche passeggiando lungo le rive della mia Grecia, quella che d'estate indossa “i semi e le bucce dei cocomero, la sua corona e i suoi diamanti”, ho potuto sentire il richiamo dell'alto mare, ascoltando lo swell che ammalia i marinai.

martedì 19 luglio 2011

Il nostro mare quotidiano


Qual è il colore del mare? Il blu è il più comune o quello che in maniera più semplice gli si associa. Blu è l’alto mare, tanta parte del Mediterraneo e degli oceani. Sottocosta è invece spesso grigio, verde, marrone o rossastro. Nei giorni di tempesta, comune alle acque di terra come a quelle del largo, è la punteggiatura bianca dei frangenti.
Dall'approdo di Castiglione della Pescaia, con scirocco teso il blu tirrenico lo si raggiunge attraversando due fasce di colore: sabbia e cerulea. Nel pelago ionico il mare diventa color del vino, come da odissiaca memoria; lì le acque sono talmente profonde che sembrano inghiottire anche la luce più vivida. Attraversando la bocca di Malamocco, che collega la laguna veneta al mare, si incontra un Adriatico che ha per miglia e miglia le mille sfumature del verde, variabile a seconda della stagione, delle nuvole e del vento. Navigando tra le isole Egadi si rimane incantati guardando il blu dell'occidente mediterraneo mescolarsi con quello d'oriente. Nelle acque dell'isola della Giraglia il mare è verde ofiolite, riflettendo la luce delle pietre.

Senz’alcuna pretesa di rigore storico o lessicale, allo scopo di restituire una suggestione, si può associare la varietà e l’incertezza dei termini con cui i latini indicavano i blu all’infinita e indefinibile varietà cromatica delle acque mediterranee. Caerulĕatus, caeruleus, caelĕs, cyaneus, caesius, glaucus, lividus, venetus, aerius, aggettivi che rimandano a una serie di sfumature: color mare, ceruleo, celeste, ciano, cesio, glauco, livido, veneto, aereo. Una polisemia cromatica che per alcuni riflette anche lo scarso interesse del mondo romano e medievale cristiano per il blu. Nei secoli successivi i latini, coloro che specchiandosi nel Mediterraneo lo definirono Mare Nostrum, mutuarono dalle lingue germaniche e arabe, rispettivamente il blavus da blau e azureus da lazaward. Sul Mediterraneo si dovettero affacciare genti nuove, per trasformare la percezione cromatica delle acque, per arricchire la tavolozza latina di due parole oggi imprescindibili per narrare il mare: blu e azzurro.
Guardando ogni giorno dalla riva l’inesausta mutevolezza dei colori marini, osservando le mille sfumature riflesse sulla bianca prua della barca diretta al largo, ho capito come la magnificenza del blu sia comunque insufficiente a descrivere le acque mediterranee, le sue mutevoli epifanie cromatiche. Quelle di un mare fatto d’acque limpide, blu o azzurre a seconda della profondità, capace poi di tingersi dei colori di continenti e penisole, in cui si specchia il verde scuro della macchia o quello argentato degli oliveti, il giallo estivo dei campi di grano o degli incolti; in cui si mescolano rossi, grigi, neri, bianchi sedimenti delle spiagge o quelli portati da fiumi, fiumare e torrenti. Le acque riflettono poi i colori del cielo: quelli caldi dei crepuscoli, cupi della notte, luminosi dei mezzogiorni sereni; le stesse ne restituiscono i grigiori: tenui delle ore di foschia, plumbei in quelle di pioggia. C’è un mare meridionale di luce e di riverberi, uno settentrionale di nebbia e di neve, favolose eccezioni mediterranee.
Vogliamo ogni giorno affacciarci al nostro mare quotidiano, anche per scoprirne i colori e le infinite sfumature.

lunedì 27 giugno 2011

Il nostro mare quotidiano



“Spiaggia libera per noi”, cantava Sergio Endrigo nel 1986. Spiaggia libera per noi! continuiamo a chiedere ancora oggi. A gran voce lo si farà domenica 2 luglio a Lido di Ostia (Roma), nella manifestazione organizzata dal comitato “Spiaggia bene comune”.
In una intervista Sergio Endrigo riassumeva con queste poche ma incisive parole la libertà offerta da mari esotici, brasiliani o cubani che fossero: “Il mare è di tutti e per fare il bagno non si paga ...”. La stessa libertà l'hanno cantata decenni prima, in altra forma e luoghi, Albert Camus e Mario Tobino. Dei bagni nel porto di Algeri, negli anni Trenta del Novecento, ci ha lasciato uno struggente ricordo lo scrittore francese. In quella città non si diceva “fare un bagno ma offrirsi un bagno”, perché il piacere delle acque era uno dei pochi, ma grandi, tesori che ogni uomo aveva a disposizione, al di là del suo stato economico. Alla stessa gioiosa libertà che il bagno di mare può offrire, è ascrivibile il ricordo di Mario Tobino, un autore attento allo stesso modo ad indagare le menti umane e le rive marine. La festosa esperienza del tuffarsi dal molo, alla ricerca del soldino lanciato in acqua dai signori, era uno degli episodi che più sintetizzavano la libertà dei bambini di Viareggio, nella prima metà del secolo scorso. Lì e ad Algeri, come in tutti i porti del Mediterraneo, le acque accoglievano i propri figli, poveri, ma con la possibilità di trovare in quel mare sotto casa, gioie e spensieratezze ai nostri ricchi figli spesso sconosciute. Credo invece che l’euforia acquatica, che ancora oggi vivono sui moli i bambini di Lampedusa come quelli di Lipari, debba essere restituita a tutti i figli delle piccole e grandi città di mare.
Oggi, sotto il Sole del Mediterraneo, le città non sempre consentono un rapporto diretto con il mare. S’è perso “quel dialogo della pietra e della carne nella misura del Sole e delle stagioni”, che per secoli ha arricchito i centri urbani affacciati sull’acqua. E dove meglio che nelle spiagge libere limitrofe alle nostre città possiamo rivitalizzare quell'imprescindibile dialogo con il mare, con le acque e il sole, con le onde e il vento?
Perciò come un augurale invito riascoltiamo e cantiamo insieme a Sergio Endrigo: “Spiaggia libera per noi / Che veniamo dall’interno / Dalle montagne e dai campi di granturco / Dalle città, dai grattacieli / Spiaggia libera per noi / Che veniamo dall’inferno / Spiaggia libera per noi”. Faremo risuonare le note e il ritornello di questa canzone, un vero e proprio inno all'idea di spiaggia come bene comune. E, “Ringrazieremo il cielo / Che ci dà l’amore / E ancora un batticuore / Per il tuo corpo nudo / Che si muove al vento / Come un girasole / Spiaggia libera / Libera per noi”.
Spiaggia libera, mare libero; libero per noi e per i nostri figli.

giovedì 23 giugno 2011

Insulomania



Fin dalla notte dei tempi, chi va per mare sogna di approdare in un'isola, che si chiami Itaca, Ogigia, Atlantide o Utopia, Taprobana, Eleuthera. Isole reali o mitiche, immobili o erranti, emerse o sprofondate. Isole marine, lagunari, lacustri o fluviali. Isole vulcaniche, coralline, continentali, addirittura metamorfiche, come nel racconto di Ovidio, in cui Perimele, una bellissima naiade, viene trasformata in isola da Nettuno. Da millenni, l'isola mediterranea per eccellenza è Itaca, “chiara nel sole”, quella che, malgrado le cento disavventure e le altrettante tentazioni, rimane l'agognata meta di Odisseo. Ma altrettanto seducente per “l'eroe multiforme che tanto vagò”, e per tutti noi, è l'isola di Ogigia, dove abita “la figlia di Atlante, l'insidiosa Calipso dai riccioli belli, dea tremenda”. La ninfa gentilmente lo accolse, lo curò e lo nutrì, promettendogli che “lo avrebbe reso immortale e per sempre senza vecchiaia”. Agli occhi del navigante, l'Odissea è anche il primo isolario della storia, un vero e proprio catalogo corografico di alcune delle più belle e importanti isole mediterranee. Toponimi e immagini concrete giunte fino a noi, quali la già citata Itaca irta di rocce, Eolia regno del re dei venti, l'ampia Creta, la solare Trinacria, la selvosa Zacinto, altre invece avvolte nel più fitto mistero quali oltre ad Ogigia riconoscibile dall'odore del fumo di tenero cedro e di tuia, Eea l'isola di Circe, Dulichio ricca di grano, Scheria dalle fertili zolle.
Racconti che fanno ipotizzare che anche Omero fosse affetto da “insulomania”, la passione di coloro che sono attratti irresistibilmente dalle isole, secondo la definizione di Ernesto Franco. Di certo tutti i marinai consciamente o inconsciamente sono insulomani, non fosse altro che la parola greca “nesos”, isola, significherebbe in origine “ciò che naviga”. Chi allora più del velista è innanzitutto un insulomane, follemente attratto da quell'isola che chiamiamo vela? A riprova di ciò si pensi che la passione è spesso inversamente proporzionale alla dimensione della barca. Più piccola è l'isola navigante, più grande è l'insulomania. Ma questa sindrome va ben oltre la ristretta cerchia dei marinai, perché l'isulomania può colpire anche gente che non solo non sa niente di scotte e cime, ma nemmeno di acqua: sognatori, lettori o oggi, ai tempi di Google Earth, i più numerosi web-nauti.
Sarà bene quindi chiarire che di insulomania, o per essere più precisi di “islomania” utilizzando il termine inglese originario, scrisse per la prima volta Lawrence Durrell negli anni Cinquanta del Novecento. “... ho trovato una volta un elenco di malattie non ancora classificate dalla scienza medica; tra queste compariva il termine “isolomania” (nella traduzione italiana), descritta come un'afflizione dello spirito rara, ma per nulla sconosciuta. C'è gente, ..., che trova le isole in qualche modo irresistibili. La semplice consapevolezza di trovarsi su un'isola, un piccolo mondo circondato dal mare, provoca in loro un'inspiegabile ebrezza. Questi “isolomani” nati, ..., sono i discendenti diretti degli abitanti di Atlantide, e il loro vivere da isolani altro non è che un inconscio anelare all'Atlantide perduta ...” .

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Il racconto completo è pubblicato sul mensile BOLINA n.287 di Giugno 2011

mercoledì 15 giugno 2011

Il nostro mare quotidiano

E' di queste ore la notizia che nel passaggio alla Camera, il Governo ha eliminato dal “decreto sviluppo”, la norma sui diritti di superficie delle spiagge, che in un primo momento dovevano essere di 90 anni, poi ridotti a 20. In entrambi i casi una sciagura per chi crede che il mare e le sue rive siano un bene comune, quindi inalienabile, neanche in forma indiretta.
Sarà una concomitanza casuale, ma ciò non toglie che la (speriamo) positiva decisione, la si relazioni alla vittoria dei due SI' al referendum sull'acqua. Di quanto questi fossero strettamente legati alle idee, e alle conseguenti politiche, riguardanti i beni comuni, e le coste in particolare per un paese come l'Italia, avevo già scritto nell'aprile scorso, quando ancora nulla faceva presagire questo “salto di vento”. Senza enfatizzare troppo il risultato referendario, ma fieri per l'obiettivo raggiunto, mi permetto di rilanciare un monito di Franco Cassano, da decenni illuminato difensore dei beni comuni. “Laddove il bene comune non interessa più i singoli, il suo curatore è un despota che non viene più controllato”. In queste prime settimane di stagione balneare, l'invito è quindi quello di interessarsi di quel bene comune chiamato mare. Il meraviglioso Mediterraneo che circonda la Penisola, regalandoci aria salmastra da respirare, acqua salata in cui nuotare, rive libere lungo cui passeggiare o incontrare l'Homo civicus, colui che vuole ritrovare “la comunità senza perdere la libertà”.

domenica 5 giugno 2011

Il nostro mare quotidiano



Oggi, 5 giugno 2011, si celebra la “Giornata mondiale per l'ambiente”, un'iniziativa annuale dell'ONU, quest'anno dedicata alle “Foreste”.

Il mare è una foresta; blu, enorme, ma soprattutto vicinissima alle nostre città.
Decine di milioni di italiani vivono lungo le coste, centinaia di milioni di mediterranei vivono come rane attorno al nostro amato e antichissimo stagno, parafrasando Platone. Eppure pochissimi si rendono conto che il Mediterraneo è la nostra foresta, quella a due passi dalle nostre case. Il mare, al pari della foresta, è serbatoio di biodiversità e polmone azzurro, ma infinitamente più esteso, per superficie e profondità. Ogni giorno per tantissimi di noi il mare non è solo l'unica foresta che vediamo, ma quella che ascoltiamo, respiriamo e annusiamo. E' poi la foresta in cui vogliamo anche immergerci, uno spazio da toccare non solo con i piedi e le mani, ma con tutto il corpo. Il mare illumina le nostre giornate, le rinfresca d'estate e le intiepidisce d'inverno; regala un'aria respirabile per le nostre passeggiate, offre o dovrebbe offrire un'acqua limpida per le nostre nuotate.
La prima foresta di una Penisola è il mare, bene comune inalienabile, libero e sacro.
Solo quando sarà chiara la valenza non solo ludica del mare, ma anche e soprattutto ambientale e culturale, si riusciranno ad attivare politiche di salvaguardia e valorizzazione, non solo turistica o mercantile.
Vandana Shiva su le pagine di Repubblica chiede di riportare la foresta al centro della nostra vita. Noi mediterranei non possiamo che seguire quest'invito pensando al mare. Sempre Shiva ci dice che la foresta non è solo fondamentale per riassorbire l'inquinamento. “Ma la foresta è anche altro. Soprattutto è maestra. Per la varietà di specie che vi convivono, ha molto da insegnarci. Per questo deve essere centrale ad ogni civiltà, come lo è per la mia, quella indiana”. Per le stesse ragioni, credo che il mare abbia altrettanto da insegnare alle civiltà mediterranee, di cui, non dimentichiamolo, è stato grembo vitale.

mercoledì 25 maggio 2011

Biblioteca di mare e di costa



Le nuvole “Vanno / vengono / ogni tanto si fermano / e quando si fermano / sono nere come il corvo / sembra che ti guardano con malocchio / Certe volte sono bianche / e corrono / e prendono la forma dell’airone / o della pecora / o di qualche altra bestia / ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri”, recita una trasognata voce femminile, in apertura di una bellissima canzone di Fabrizio De André.
Noi che abitiamo in riva al mare le nuvole le possiamo vedere alte nel cielo o basse sull'orizzonte, meteore che sorgono dall'acqua. La stessa che allo stato puro, o quasi, le compone, quell'acqua senza la quale non potremmo vivere, anche nell'accezione più specifica di chi ama navigare. Per chi va a vela, le nuvole sono come le onde, punteggiano il cielo come le acque. Ma le nuvole come le onde, sono anche utilissime a rivelare lo stato del tempo atmosferico o marino, permettendo di predirne l'evoluzione, secondo un'arte antica che va coltivata con costanza e passione, anche ai tempi di internet. Soprattutto in un mare come il Mediterraneo, stretto tra le montagne, parafrasando Fernand Braudel. Se le previsioni meteorologiche sono oggi molto affidabili sugli orizzonti atlantici, spesso si rivelano inesatte in alcuni stretti golfi, a ridosso di capricciose vette o di infidi canali. Qui il marinaio non può solo affidarsi ai bollettini radiofonici o elettronichi, qui la copertura previsionale dei satelliti e dei radar non è sempre sufficiente. Qui, più che altrove, bisogna ancora saper riconoscere un cirro da uno strato, un nembo da un cumulo, bisogna saper valutare l'altezza delle nuvole e i loro sviluppi. Non c'è niente di meglio dell'esperienza marinaresca per affinare le proprie capacità di osservazione del cielo, un esercizio quotidiano che negli anni permette di affinare conoscenze empiriche fondamentali, di maturare un utilissimo sesto senso meteorologico.
E proprio un viaggio in mare è stato l'occasione per Gilles Clement di scrivere “Le nuvole”, appena tradotto in italiano da DeriveApprodi (pagg. 128, € 14). Perché come scrive in apertura l'autore “Nuvole è un diario di bordo tenuto tra Le Havre e Valparaiso dal 18 settembre al 18 ottobre 2004”. Un libro inusuale per chi conosce “il giardiniere planetario” attraverso i suoi numerosi scritti e gli altrettanto numerosi parchi, che ci hanno aperto gli occhi sulle meraviglie quotidiane del “terzo paesaggio”, che ci hanno insegnato ad apprezzare anche quelle piante vagabonde che impreziosiscono i margini stradali e più in generale le nostre infinite periferie. In questo nuovo lavoro, con l'illuminante semplicità che caratterizza la sua scrittura, Clement ci ricorda subito che “Noi siamo dentro l'acqua. Pensiamo di respirare l'aria. Respiriamo l'acqua. L'acqua non ci resta a distanza. Ci avvolge, ci penetra come fa con ogni organismo vivente e ogni oggetto inerte”. E proprio alle molteplici interazioni che le nuvole sviluppano con gli organismi viventi e con microscopici ma fondamentali oggetti inerti, sono dedicate le pagine più affascinanti del libro. Riflettiamo così sul fatto che l'aria è un areosol, che contiene un microgrammo di materia a metro cubo. Da quantità e qualità di questo particolato non dipende solo l'esistenza o meno delle nuvole, ma anche gli effetti che le precipitazioni hanno sulla terra e sui viventi, uomo compreso. Se le PM10 sono diventate uno dei cancri di questo modello di sviluppo, oltre che l'incubo dei nostri amministratori, il particolato presente in atmosfera è indispensabile al ciclo dell'acqua e, direttamente o indirettamente, alla vita. In ogni goccia che arriva alla pianta e a noi, è nascosto “un messaggio di cui non sappiamo niente, se nutrimento o veleno, impurità volatile, plancton celeste o marino”. Oggi “Il meteo ci informa [anche in maniera esageratamente ossessiva] sul numero di millimetri caduti il tal giorno nel tal lasso di tempo. Ma non dice mai cosa c'è nell'acqua”.
I reconditi, misteriosi, rapporti tra le nuvole e i viventi erano stati intuiti già due secoli fa da Jean-Baptiste Lamarck, lo stesso naturalista che studiò l'evoluzione qualche decennio prima di Charles Darwin. Tutto il viaggio oceanico, celeste e ideale di Clement riassunto nel libro, si snoda intorno alla figura di Lamarck, “naturalista, scienziato, pensatore universale, il primo a osare catalogare le nuvole e dar loro un nome”.
In alcuni tratti di questa navigazione a bordo di un mercantile, Clement riveste in maniera esplicita i panni del giardiniere, un anomalo giardiniere di bordo che si preoccupa delle maltrattate piante, immaginando che “Si potrebbero scegliere delle specie abituate al sale e al carburante (per gli spruzzi d'acqua di mare delle alofite, per il resto c'è da cercare). Sul tetto superiore spunterebbe una selva. Si capirebbe perché la nave si chiama Monteverde”.
A mo' di doveroso omaggio, il libro si conclude con due pagine di Lamarck che ci invitano a rinnamorarci ogni giorno delle nuvole e del cielo, il miglior modo anche per motivare lo studio “dei suoi differenti stati nel corso dell'anno, dal tempo più cupo e più brutto a quello più luminoso e sereno; quello in una parola, di tutti gli oggetti particolari che ci offre questa bella e curiosa porzione di natura”. Un invito a percorrere le rive mediterranee o a prendere il largo, per riscoprire quotidianamente la magnificenza delle nuvole e del vento, che del cielo sono i figli più belli.

sabato 14 maggio 2011

Il nostro mare quotidiano

Lunedì 23 maggio 2011
"Il nostro mare quotidiano"
ritorna in edicola nell'inserto Aria del Corriere Romagna

Il cammino è la prima forma di viaggio dell'uomo. Il bambino che si alza in piedi e cammina, non solo va più lontano e veloce, non solo libera le mani, ma allarga anche il suo orizzonte, visuale e mentale. Ognuno di noi ha vissuto quest'esperienza, di cui ha memoria inconscia, a cui deve qualche volta ripensare. A maggior ragione in tempi come questi, in cui qualcuno vuole privatizzare le spiagge, sotto forma un “diritto di superficie avente durata di novanta anni”. Dobbiamo rimetterci in cammino lungo le rive, riscoprendo la spiaggia, il bene comune per eccellenza di una Penisola.
La pretesa di percorrere liberamente le rive del mare non ha solo una valenza ludica personale, di per sé comunque sufficiente. Significa interessarsi all’evoluzione continua degli spazi quotidiani, al rapporto odierno dei luoghi con il mare, al riflettersi di questo tratto forte di natura sui muri delle nostre città. Abitare significa condividere gli spazi, ed essere insieme partecipi delle trasformazioni.
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lunedì 9 maggio 2011

Notizie

Jean-Claude Hocquet
“Un viaggio nella storia di ieri: le saline di Trieste”

Lunedì 16 maggio 2011 ore 18
Museo del Mare di Trieste
via Campo Marzio 5

Marino Vocci presenterà la lezione del grande storico francese, che lavora da quasi cinquant’anni alla storia del sale ed è stato professore nelle Università di Venezia e di Lille III della quale al momento è professore emerito. Autore di numerosissime pubblicazioni, nel 1978 ha pubblicato ”Il sale e la fortuna di Venezia” , un libro fondamentale per capire come il sale fu al centro del potere economico e politico della Repubblica della Serenissima.

venerdì 6 maggio 2011

Il nostro mare quotidiano


Sette giorni fa scrivevo che con una vittoria dei SI' ai referendum sull'acqua pubblica si contribuirà anche a rafforzare l'idea che il mare, le spiagge, le rive sono beni comuni. Con un tempismo inimmaginabile, anche ai più foschi profeti della privatizzazione, ieri il Governo ha anticipato che si procederà alla (s)vendita delle spiagge. Precisamente, all'articolo tre del Decreto Legge sullo Sviluppo, approvato ieri dal Consiglio dei Ministri, si legge: “Per incrementare l’efficienza del sistema turistico italiano, riqualificando e rilanciando l’offerta turistica, fermo restando, in assoluto, il diritto libero e gratuito di accesso e fruizione della battigia, anche ai fini di balneazione, è introdotto un diritto di superficie avente durata di novanta anni”.
Che cosa significa questo concretamente per gli italiani ce lo hanno spiegato subito tanti quotidiani, la maggior parte concordi nell'evidenziare che i privilegi concessi a pochi, andranno a discapito di molti. Nessun diritto sui beni comuni può essere alienato per un tempo così lungo, a maggior ragione per uno spazio mobile per definizione come le spiagge. Mobili da un punto di vista ambientale, in relazione ai normali fenomeni di avanzamento o regressione, e in egual misura economico e sociale. Si pensi solo a come è cambiato il loro uso nell'ultimo secolo, e di conseguenza il loro valore. Nessuno avrebbe mai immaginato che quei “relitti del mare” diventassero, nel volgere di pochi decenni, i più fruttuosi “stabilimenti” italiani.
Tornando al testo del decreto, lo stesso inciso “fermo restando ...”, rende ancora più inquietante il rischio del venir meno del diritto a poter accedere alle rive, di “offrirsi un bagno”, utilizzando le parole di Albert Camus. Noi quel bagno nelle acque delle nostre città non solo vogliano continuare a farlo, ma pretendiamo anche che nessuno imponga limiti di tempi e modi al nostro libero passeggiare, giocare, restare, lungo le spiagge.
Ancora una volta si cercano di legittimare i peggiori vizi italiani, nello specifico quello di appropriarsi indebitamente del primo bene comune ambientale di una Penisola. Cicerone, in una delle sue difese, si chiedeva: “Cosa vi è di così comune come il mare per coloro che navigano e le coste per quelli che vi vengono gettati dai flutti?”. Oggi siamo noi quelli gettati dai flutti, coloro che continueranno a battersi per la gratuità del mare e delle sue rive.

sabato 30 aprile 2011

Il nostro mare quotidiano

In queste settimane è entrata nel vivo la campagna referendaria per “l'acqua bene comune”, in cui siamo tutti chiamati ad esprimerci il 12 e il 13 giugno 2011.
A meno che .... come ci raccontano le cronache di questi giorni il Governo non trovi un altro escamotage per impedire il confronto su questo argomento di primaria importanza. Sulle implicazioni giuridiche e politiche dell'iniziativa ne ha scritto, in maniera chiara e condivisibile, nei giorni scorsi Stefano Rodotà su La Repubblica.
Qui mi preme rilanciare il parallelo tra le acque dolci e quelle salate, tra l'imprescindibile accesso gratuito alle fonti e alle rive, luoghi simbolici di una Penisola. Due casi emblematici del diritto universale a quei beni comuni che, oltre a garantire la sopravvivenza di tutti, si rivelano poi anche potenti volani di un ben-essere diffuso, da non confondere con un ben-avere di pochi. Sempre sulle pagine de La Repubblica, Carlo Petrini ha evidenziato come, in passato, alcune società floride “avevano inventato modi per distribuire l'acqua liberamente a tutti”.
A riguardo voglio ricordare come il diritto all'acqua è in maniera molto efficace raccontato da Ovidio nelle “Metamorfosi” (Libro VI, 313-379), in relazione al mito di Latoma, madre di Apollo e Diana. E' lei ad ammonire la “rozza masnada” che gli impedisce di attingere acqua fresca da bere; “Perché non volete che tocchi l'acqua? La natura non ha fatto di proprietà privata né il sole né l'aria e neppure la fluida acqua. E' a un bene pubblico che mi sono accostata, e ciò nonostante vi chiedo di darmene come si chiede un favore. ... Un sorso d'acqua sarà per me del nettare, e riconoscente dirò di aver riavuto la vita: con l'acqua mi ridonerete la vita. E abbiate pietà anche di questi, che dal mio grembo tendono le braccia”. Ma coloro che dell'acqua pretendono l'esclusiva proprietà sono sordi alle suppliche delle madri, anche a quella della madre degli dei, che in uno scoppio d'ira li punisce facendoli trasformare in rane capaci solo di litigare, imprecare e ingiuriare.
Una favola che va letta in ogni scuola, che va portata nei teatri e nelle piazze, che va raccontata nelle strade e nel web, per far capire che quello che sta succedendo in Italia e nel mondo è una pericolosissima storia antica, quella di chi vuole privatizzare i beni comuni, per farne profitto privato. Una favola che spiega benissimo perché è necessario votare SI' ai referendum sull'acqua pubblica del 12 e 13 giugno; convinti che questa scelta contribuirà anche a rafforzare l'idea che il mare, le spiagge, le rive sono beni comuni.

venerdì 29 aprile 2011

Notizie


Il mare e la spiaggia, il cielo e il vento: la gratuità. Quella che contraddistingue una bellissima manifestazione in corso in questi giorni a Cervia (RA), arrivata alla 31^ edizione: Il Festival Internazionale dell'Aquilone

mercoledì 13 aprile 2011

Il nostro mare quotidiano


Questa mattina un Adriatico insieme luminoso e burrascoso mi ha ricordato con grande gioia ed affetto due dei caratteri di Alessandro Scansani, direttore della casa editrice Diabasis, morto nei giorni scorsi.
La nostra amicizia, non scevra di aspre discussioni culturali e politiche, era nata proprio in riva al mare, o per meglio dire attorno a “Lo Spazio Adriatico”, la collana che ospita i miei due libri. Alessandro aveva letto le bozze del mio primo racconto adriatico, su suggerimento di Eugenio Turri, un pioniere della geografia antropologica italiana, anch'egli innamorato di questo nostro “mare d'Europa”, per utilizzare il titolo della monumentale opera in tre volumi pubblicata dieci anni fa, di cui è stato promotore, curatore e coautore. Su quel piccolo vascello di carta eravamo riusciti con gioia ad imbarcare anche due grandi autori, Predrag Matvejevic, che con il suo Breviario ha aggiornato la narrazione mediterranea, e Piero Guccione, la cui luce è la migliore rappresentazione della mediterraneità del Golfo di Venezia.
La collana “Lo Spazio Adriatico”, avviata con tempismo e coraggio nei primi anni Novanta nel pieno dei tragici avvenimenti balcanici, è dedicata alle “culture di incontro e di scontro delle due sponde”, declinando nello specifico adriatico quella tensione culturale che fa di Diabasis una casa editrice culturalmente indisciplinata, come amava definirla Alessandro. Per comprendere l'uomo e più in generale il progetto realizzato con la cofondatrice Giuliana Manfredi e i tanti che ne hanno condiviso gli orizzonti, basta rileggere le note editoriali di chiusura dei dieci titoli pubblicati. Ognuna è un piccolo, accuratissimo, distillato di saperi adriatici, un haiku in prosa, per il più orientale dei mari italiani. Rileggendoli ho pensato alle luci delle lampare che punteggiano il buio, immenso, Adriatico nelle notti senza luna. Per andare oltre le stereotipate visioni di questo piccolo mare, ci sono utili le pagine di Giacomo Scotti, guide “alla conoscenza di un Adriatico fascinoso arcipelago dei mari del sud della Dalmazia tra due sponde e molti mondi tra culture, storie e lingue dove la creazione di natura si intreccia e salda con la creazione degli uomini”, di Elvio Guagnini che ci descrive Trieste, “Identità di una città plurale la letteratura triestina dell'Otto-Novecento viene narrata in brevi saggi «quotidiani»”, di Rosario Pavia che ha curato una “Indagine sul complesso mondo Adriatico e sulle prospettive che la nuova Europa e i tempi nuovi aprono nel crocevia-koiné di popoli culture lingue religioni economie e mercati”. Un lavoro editoriale fatto con estrema cura e passione, sia nel confronto serrato con autori contemporanei, che riportando a galla le migliori pagine adriatiche del passato, quelle firmate da Biagio Marin che “canta altre rive”o di Fulvio Tomizza, “viaggiatore dall'Adriatico ad altre terre e mari, garzaia di altre storie”.
Questa mattina, nel fragore nelle onde, ho riascoltato il racconto delle prime visioni dell'Adriatico di Alessandro Scansani, quando nell'immediato dopoguerra trascorreva lunghe settimane d'estate sulle colline tra la Romagna e le Marche. Il suo sguardo di bambino emiliano si perdeva estasiato in quella infinita “pianura liquida”. Ricordando i suoi occhi azzurri e inquieti come il mare, rileggendo i suoi libri, amati, corretti, allevati e alimentati come solo un Padre sa fare, ripensando alla sua avventura editoriale avviata “per impulso morale, per amore della conoscenza e della libertà, per omerica apertura verso gli uomini, le loro storie, le loro città”, sapremo affrontare nel modo migliore le tante, durissime, sfide culturali che ci attendono, “andando attraverso” proprio come ci dice il nome della sua, nostra, nave: Diabasis.

venerdì 8 aprile 2011

Il nostro mare quotidiano


Vent'anni fa Yohan e Kater I Rades, negli anni scorsi Budafel e Pinar, solo ieri Cartagine e cento, mille altri nomi di navi naufragate o salvifiche, compongono un litania di sofferenze mediterranee che sembra non avere fine. Quella di un mare che, al di là di tanta retorica, rimane una tragica frontiera acquea.
Solo nel Mediterraneo 16.000 morti annegati o di sete o per altre cause, negli ultimi vent'anni, secondo quello che si legge sui quotidiani e documenta Fortress Europe. Il Canale d'Otranto ieri e quello di Sicilia oggi, stretti bracci di mare se visti su Google Maps o dal finestrino di un aereo; lunghissimi e pericolosissimi per chi è costretto invece ad attraversarli a bordo di malandati pescherecci, rugginose bettoline, insicuri gommoni. Le cronache di questi giorni riaccendono ancora una volta, in maniera spesso frettolosa e superficiale, l'attenzione sulla dimensione oscura del Mediterraneo.
In antitesi alla sua immagine vacanziera, nell’ultimo ventennio con il riesplodere dei fenomeni migratori questo mare è ritornato ad essere una delle porte d’ingresso privilegiate per l’emigrazione, riprendendo una sua più antica, dura, reale dimensione spaziale ed esperienziale, almeno per quelli che chiamiamo clandestini. Racconti di partenze disperate, navigazioni avventurose, a volte di tragici naufragi o di perigliosi sbarchi, sono diventate cronache quotidiane. Le barche rabberciate, le piccole flotte, il rimanere a vista, il finire in acqua, le onde infauste; oggetti, personaggi, situazioni apparentemente cancellati dalla nostra modernità riemergono nelle testimonianze di chi, vicinissimo a noi, vive l’altra faccia della contemporaneità. C’accomunano gli spazi, in questo caso il mare, unici nella fisicità, differenti nell’esperienza e quindi nel significato. Quelle che leggiamo sono storie intrise di modernità, fatte di sogni veicolati dalla televisione o da internet e di comunicazioni satellitari; ma al contempo raccontano anche una dimensione del mare antichissima, fatta di ansie, paure, drammi, a noi sconosciuti. La memoria storica è breve e anche le immagini del mare quasi sempre rispondono a necessità di consumo. Solo leggendo attentamente le cronache riscopriamo il Canale di Sicilia, perlustrato alla ricerca di naufraghi negli assolati giorni d’estate o di cadaveri in questa terribile primavera.

mercoledì 16 marzo 2011

Notizie






Mare di carta in collaborazione con
l'Associazione Culturale Olivolo
la Lega Navale di Venezia
l'Associazione Mitico Arpege
e con il partenariato della Municipalità di Venezia, Murano e Burano

ha il piacere di invitarvi giovedì 24 marzo alle ore 18.00
presso la Sala della Municipalità di san Lorenzo , Castello 5056

alla conferenza
Dalla storia della Nautica
alla cultura della vela in Adriatico


Relatori saranno gli autori dei libri seguenti:
L’equipaggio invisibile, Robert Clark e la nascita della vela modernadi Andrea Cappai, Nutrimenti
Barcolana Classic '10, Vele d'epoca in Adriatico
di Riccardo Pergolis e Piero Tassinari, Lint Editoriale
Il segno dell’onda
di Piero Tassinari, Comunicarte
Moderatore sarà Guglielmo Danelon

domenica 13 marzo 2011

Notizie


Caro Andrea (candidato sindaco di Rimini),
ho appreso con piacere tramite i quotidiani locali del tuo incontro con la marineria riminese. Con sincerità devo però dirti che avrebbe dovuto essere un'iniziativa pubblica, anche in relazione alla centralità che tu stesso riconosci al rapporto (teoricamente imprescindibile) tra Rimini e il mare.
Senza dilungarmi in quest'occasione in inutili recriminazioni per la quasi assoluta assenza della politica del nostro governo riminese su questo tema, se non in maniera puntuale su particolari necessità, spesso più di immagine o tornaconto privato che di progettualità, mi permetto invece di avviare con te e con gli altri candidati sindaci, e più in generale con tutti quelli che il mare lo vivono quotidianamente, per lavoro o per piacere, una concreta discussione pubblica su questo (mancato) rapporto. Provo quindi a declinare in maniera molto sintetica le mie idee sulla gratuità del mare, che tratto nel blog http://maregratis.blogspot.com/ e di cui ho discusso pubblicamente in diverse occasioni in giro per l'Italia e a Rimini, su invito del Laboratorio PAZ, del Circolo Velico Riminese, di alcune scuole, del Festival Assalti al Cuore, della Biblioteca Gambalunga, ecc..
Se, come credo e argomento, il mare è un bene comune, anzi il primo bene comune ambientale di una città costiera, allora le rive vanno liberate e rese accessibili, il lavoro difeso e sostenuto (a cominciare dagli interessi dei lavoratori per un partito di sinistra), le pratiche sportive e culturali promosse e finanziate. In breve e per punti.
Accesso al mare:
- aprire a tutti i cancelli della nuova darsena;
- consentire il passaggio pedonale lungo tutta la banchina portuale (oggi precluso presso la sede del Club Nautico e del Consorzio Linea Azzurra);
- pedonalizzare il lungomare e abbattere inutili e obsolete barriere visive;
- completare il collegamento pedonale (fino al Ponte di Tiberio) lungo il lato destro del portocanale e renderlo decente;
- eliminare o almeno limitare gli eventi “pubblicitari” su piazzale Boscovich e spiaggia libera limitrofa;
- tutelare le pochissime spiagge libere (al di sotto anche di quanto stabilito dalle normative regionali);
- prevedere un piano finanziario pluriennale per l'acquisizione di spiagge private, da rendere libere (attenzione! questo anche in chiave turistico economica).
Lavoro in mare:
- chiedere alle imprese il rispetto dei diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori! (ricordando che Rimini non avrebbe quel meraviglioso luogo che è il Mercato Coperto del pesce, e relativi piaceri sensoriali, senza il faticoso lavoro dei concittadini lampedusani e magrebini);
- accelerare l'iter amministrativo per il riordino dell'area portuale;
- sostenere i pescatori nelle loro battaglie per la tutela degli ambienti costieri a livello locale, nazionale, comunitario (qualità delle acque, lavori di ripascimento, regolamenti sulla pesca, ecc.);
- incentivare la formazione professionale dei mestieri del mare;
- sostenere le nuove imprese artigianali.
Vivere il mare:
- riattivare o avviare progetti scolastici dedicati alla vela, al nuoto, al remo;
- sostenere i circoli velici e sportivi legati al mare;
- incrementare il numero di scali di alaggio e varo per le piccole barche;
- rianimare e aggiornare manifestazioni veliche di respiro nazionale e internazionale (come la Rimini-Corfù-Rimini) e prendere le distanze da inutili e deleterie manifestazioni di voyeurismo nautico (il “caso Lolli” dovrebbe aver insegnato qualcosa anche da un punto di vista etico-culturale?) o vip-sportive;
- sostenere le iniziative culturali legate al mare (associazione vele al terzo, collezioni museali e librarie, incontri e spettacoli, ecc.).
Sottolineo che alcune di queste proposte non richiederebbero nessun investimento economico, ma progettualità, sinergie, determinazione.
Un'ultima idea, penso anche di grande effetto mediatico, sarebbe quella di istituire primi in Europa le “domeniche blu”, con divieto di navigazione privata a motore nelle acque costiere (almeno entro 1 miglio dalla costa, lasciando ovviamente canali di accesso ai porti).
Credo che discutendo su punti specifici e dando corso a qualcuno di questi, o di altri, Rimini potrebbe “riconquistare il mare” o comunque permettere ai nostri figli e ai nostri ospiti di conoscerlo e viverlo quotidianamente. Convinti che la riscoperta del mare parta dalle acque che bagnano la nostra città.

martedì 15 febbraio 2011

Biblioteca di mare e di costa




“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Malgrado da secoli si dica, e sia stato scritto anche sul Palazzo della Civiltà Italiana dell'EUR di Roma, che siamo un popolo di navigatori, il nostro Paese è al contrario molto lontano dal mare, sempre che non lo si confonda con la spiaggia. Questa lontananza riguarda innanzitutto la cultura e, nello specifico, la letteratura. E' quindi doppiamente benvenuta l'antologia, o, per rimanere in tema, il vascello cartaceo costruito da Giorgio Bertone, professore di Letteratura Italiana all'Università di Genova. “Racconti di vento e di mare” (2010; Einaudi, Tonino, pp. 578; € 22) è una grande nave, nelle cui stive il curatore ha caricato alcune delle più belle e utili pagine di mare, a partire dai racconti mitici, fino ad arrivare a quelli del Novecento. Diciamo subito che nell'antologia gli autori italiani sono una minoranza, con l'unica eccezione del capitolo intitolato “Il mare di chi non ha mai visto il mare”, che raccoglie tra gli altri i racconti di Eugenio Montale, Cesare Pavese ed Edmondo De Amicis. Italiano è comunque uno dei due autori di riferimento di Bertone, quell'Antonio Guglielmotti sacerdote domenicano e autore del preziosissimo “Vocabolario marino e militare” del 1889. Non un semplice dizionario ma un vero e proprio insuperato compendio sull'arte del navigare. Se il Guglielmotti attraverso le sue voci ha “scritto racconti virtuali, quelli che l'Italia sui mari mai scrisse”, Herman Melville è l'inarrivabile gigante dell'epopea marinaresca oceanica. Il suo “Moby Dick o la Balena Bianca”, è “un' «opera mondo», paragonabile alla grande epica classica”. E' proprio Melville a informarci che “Più esatta, concreta e precisa è la terminologia più diventa utile anche per nutrire l'immaginazione e la leggenda”.
La smisurata grandezza degli oceani di ieri e di oggi è raccontata magistralmente da Joseph Conrad, Jack London, Robert Luis Stevenson o dai “vagabondi” solitari Joshua Slocum e Bernard Moitessier. Un spazio è dedicato anche alle vicende corsare di Giuseppe Garibaldi, ambientate lungo le coste dell'America del Sud. “Corsaro! lanciato sull'Oceano con dodici compagni a bordo di una garopera, si sfidava un impero, e si facea sventolare per i primi, in quelle meridionali coste, una bandiera d'emancipazione! La bandiera repubblicana del Rio-Grande!”, scrive il Generale. Esperienze fondamentali per poter maturare poi i successi militari utili alla causa italiana, dalla tragica fuga verso Venezia, fino alla vittoriosa navigazione dei Mille.
Molto suggestive sono anche le “Voci sparse” raccolte all'inizio da Bertone, una specie di micro-zibaldone che unisce idealmente tutte le genti di mare, quelle che secondo una adagio inglese attendono “il primo giro d'elica” per pagare tutti i debiti. In chiusura “Ultimi avvisi” fornisce una piccola ma ragionata bibliografia, utile a chi partendo dall'antologia voglia proseguire la sua rotta per i vastissimi, spesso incerti, orizzonti della conoscenza. Se l'autore ha sentito come un compito ascoltare le voci “più alte e nobili che siano mai levate a raccontarci dell'esperienza umana di vento e di mare”, così ogni italiano per dirsi abitante di una penisola mediterranea, dovrebbe aver letto almeno un paio di questi emozionanti racconti.

sabato 5 febbraio 2011

Il nostro mare quotidiano








Domenica scorsa Gianfranco Ravasi sulle pagine di Domenica de Il Sole 24 ore ha ricordato che “Una società sbrigativa e superficiale che ingurgita cibi a caso in un fast food, che ignora lo spreco alimentare, ... ha perso non solo la dimensione simbolica del cibo ma anche la spiritualità che in quel segno è celata”.
Considerazione non solo condivisibile, ma declinabile alle idee di un mare inteso come bene comune. Sì, perché anche attraverso i suoi più autentici sapori possiamo riappropriarci del mare. Tutto ciò senza alcuna preclusione alle contaminazioni, che da sempre sono il principale ingrediente della miglior cucina, capace di diventare tradizione nel significato più interessante e concreto. Per intendersi, preferisco mille volte di più un cuscus cucinato da amici pescatori tunisini con piccoli, “poveri”, pesci adriatici, agli spiedini industriali “romagnoli” fatti con calamari dell'Atlantico e gamberetti del Pacifico.
Ma ritornando all'orizzonte culturale magistralmente riassunto da Gianfranco Ravasi, con riferimento al pane e al vino, vorrei altrettanto brevemente accennare ad alcuni antichissimi significati di un altro cibo mediterraneo per eccellenza, il pesce, riprendendo alcuni frammenti del mio Abbecedario Adriatico.
L'antichissima ascendenza di ittico dalla parola greca ichthŷs e la potente forza anagrammatica, che nella simbologia cristiana delle origini lega il vocabolo greco al nome di Iesus Christos Theu Yios Soter, Gesù Cristo figlio di Dio, eleva il lemma ittico a paradigma del lessico peschereccio. Perciò la descrizione dell'aggettivo ittico è molto di più di una semplice questione di zoologia o di economia, di una minuziosa elencazione faunistica o patrimoniale.
Il fascino del pesce sta anche nell'archetipica associazione ai prodotti alimentari mediterranei per eccellenza: pane, olio e vino. Una triade che il pesce integra e completa, apportando ai frutti della terra la carne stessa del mare. Così tanta letteratura e iconografia, antica e medievale, in cui sono rappresentate tavole sacre apparecchiate con una bianca tovaglia, su cui stanno oltre al pane e al vino, l'olio e il pesce, assumono almeno visivamente anche un significato antropologico. Immagini insieme semplici, potenti, evocative, che restituiscono il legame spirituale e alimentare delle popolazioni mediterranee con il mare. E ancora ricollegandoci all'immagine che rafforza l'articolo di Ravasi, ci sarà stato di certo anche tanto pesce sulle tavole imbandite di “Le nozze di Cana”, capolavoro assoluto di Paolo Veronese, che tante volte si sarà probabilmente recato anche al mercato ittico di Rialto a Venezia, un altro capolavoro che si rinnova ancora ogni giorno.