Anticipo l'inizio dell'articolo dedicato alle spiagge libere che verrà pubblicato domani 28 agosto 2010 sulle pagine di Cultura e Spettacolo del Corriere Romagna.
Più spiagge libere non significa meno economia, ma “altra economia”.
Da questa sintetica considerazione potrebbe partire una nuova riflessione, sganciata da vecchie categorie ideologiche o da nuove strategie liberiste, accomunate da sterili contrapposizioni. E dove queste idee meglio che nella Riviera Romagnola potrebbero trovare idonei spazi, politici e geografici, di sperimentazione? Qui infatti le spiagge sono storicamente e culturalmente vocate all’innovazione. Novità dai molteplici risvolti economici, novità che oggi potrebbero essere declinate alle più aggiornate visioni ambientali, sociali, culturali e insistiamo di “altra economia”, finanche di decrescita. Decrescita felice! come si conviene agli infiniti piaceri che il mare gratuitamente ci offre.
Per poter approcciare in maniera nuova il problema, anzi le opportunità che offrono oggi le spiagge libere è bene fissare un primo elemento oggettivo. L’attuale uso delle spiagge romagnole, diffusosi in tutto il Mediterraneo, impostato su un modello organizzativo fordista, cioè nella seriale ripetizione dello stabilimento balneare incardinato sui tre dogmi cabina, ombrellone, lettino, è solo un’invenzione relativamente recente. Per chi è più giovane o per chi deve rinfrescare i ricordi basterà sfogliare il catalogo online d’immagini del “Museo virtuale dei bagni di mare e del turismo balneare”, http://www.balnea.net . In pochi click scoprirà o ricorderà che la completa occupazione balneare delle spiagge romagnole è avvenuta solo negli anni Sessanta, quando il turismo a Rimini vantava già più di un secolo di storia. In cento anni quelle spiagge da inutili, ...
venerdì 27 agosto 2010
mercoledì 18 agosto 2010
Il nostro mare quotidiano
Il nostro mare quotidiano è innanzitutto un gratuito, sempre nuovo, piacere sensoriale.
Nelle scorse settimane Raffaele La Capria ha ripreso sulle pagine del Corriere della Sera il discorso sul nuoto a lui molto caro, sviluppato in bellissimi saggi e suggestive pagine narrative. Lo ha fatto partendo ancora una volta dalla sua personale esperienza, oggi di ultraottantenne, evidenziando come nuotando “lontani dagli sguardi della gente che affolla le spiagge ... si può riaprire il dialogo col mare, che col passare del tempo mi si rivela ogni anno diverso”.
Io penso che il nuoto non sia solo una pratica sportiva, ma al pari del cammino sia una esperienza conoscitiva. Ogni volta, nuotando e camminando rinnoviamo ancestrali esperienze sensoriali, riprendiamo antichissimi viaggi per acque e terre, sempre sconosciute.
A nuoto, possiamo percorre con ritmiche, cadenzate, bracciate il tratto di mare che separa due coste, nelle immobili acque del mattino. Per qualche minuto, del nostro procedere rimane traccia e la nostra scia unisce le rive. Un filo evanescente che la prima brezza dissiperà. Possiamo salire e discendere le onde, alzate da un meridiano vento di scirocco e provare la gioia di una nuda navigazione corporea. Si fatica ad arrampicarsi sulla cresta delle onde, al contrario si gioisce quando si è spinti dalle stesse. L’onda ripida e corta rende difficoltosa la bracciata e la respirazione, più che dell’andare si ha la sensazione del resistere. Sull’onda morbida e lunga, che succede alla burrasca, rimane la difficoltà della salita, ma al contrario si ha il piacere di avanzare tra benevoli flutti. Il corpo in mare, scosso dalle onde, diventa una fragile barca, mossa da remi spesso insufficienti a contrastare la forza marina.
C’è la nuotata che precede il lavoro, quando l’aria fresca dell’alba rende più tiepide le acque, o quella che defatica e rinfresca, fatta nella calda luce del tramonto. Si può nuotare in totale solitudine o cercare un’armonica sintonia con un amico o un’amante. Affinità natatorie non possono che sottendere amicizie o amori, capaci di resistere alle intemperie degli anni.
Nelle scorse settimane Raffaele La Capria ha ripreso sulle pagine del Corriere della Sera il discorso sul nuoto a lui molto caro, sviluppato in bellissimi saggi e suggestive pagine narrative. Lo ha fatto partendo ancora una volta dalla sua personale esperienza, oggi di ultraottantenne, evidenziando come nuotando “lontani dagli sguardi della gente che affolla le spiagge ... si può riaprire il dialogo col mare, che col passare del tempo mi si rivela ogni anno diverso”.
Io penso che il nuoto non sia solo una pratica sportiva, ma al pari del cammino sia una esperienza conoscitiva. Ogni volta, nuotando e camminando rinnoviamo ancestrali esperienze sensoriali, riprendiamo antichissimi viaggi per acque e terre, sempre sconosciute.
A nuoto, possiamo percorre con ritmiche, cadenzate, bracciate il tratto di mare che separa due coste, nelle immobili acque del mattino. Per qualche minuto, del nostro procedere rimane traccia e la nostra scia unisce le rive. Un filo evanescente che la prima brezza dissiperà. Possiamo salire e discendere le onde, alzate da un meridiano vento di scirocco e provare la gioia di una nuda navigazione corporea. Si fatica ad arrampicarsi sulla cresta delle onde, al contrario si gioisce quando si è spinti dalle stesse. L’onda ripida e corta rende difficoltosa la bracciata e la respirazione, più che dell’andare si ha la sensazione del resistere. Sull’onda morbida e lunga, che succede alla burrasca, rimane la difficoltà della salita, ma al contrario si ha il piacere di avanzare tra benevoli flutti. Il corpo in mare, scosso dalle onde, diventa una fragile barca, mossa da remi spesso insufficienti a contrastare la forza marina.
C’è la nuotata che precede il lavoro, quando l’aria fresca dell’alba rende più tiepide le acque, o quella che defatica e rinfresca, fatta nella calda luce del tramonto. Si può nuotare in totale solitudine o cercare un’armonica sintonia con un amico o un’amante. Affinità natatorie non possono che sottendere amicizie o amori, capaci di resistere alle intemperie degli anni.
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martedì 10 agosto 2010
Il nostro mare quotidiano
Seicento miglia a vela, diverse decine di chilometri a piedi lungo le rive e poi il bus, la nave e il treno per chiudere un lungo viaggio sulle due coste e attraverso il Canale di Sicilia, spartiacque tra Occidente e Oriente mediterraneo. Un canale che collega l'Europa all'Africa, per chi del mare ha prima di ogni altra un'idea greca: di un mare inteso come pontos. Secondo il “pensiero meridiano” di Franco Cassano, le rotte “del Mediterraneo aprono alla possibilità di un rapporto, di un contatto, anche se esso può essere feroce e terribile”. Ancora una volta andando a vela ho verificato che le distanze mediterranee consentono, anzi obbligano a riflettere e sperimentare un rapporto tra le opposte rive.
Differenti rimangono lingue, culture e religioni, malgrado l'onda commerciale globalizzatrice degli ultimi vent'anni. Ma del resto quale mare può vantare una così lunga storia di incontri e scontri come il Mediterraneo? e in questa plurimillenaria avventura commerciale quale mare ha mantenuto una ostinata, affascinate pluralità di identità? Mi sono così ritornate in mente le parole di Fernand Braudel che, a Trapani, Sciacca, Siracusa, Malta, Tunisi, Palermo e negli altri approdi toccati, continuano a essere utilissime per cercare di capire cos'è questo Mediterraneo: “Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre”. E viaggiare nel Mediterraneo, prosegue sempre Braudel, “Significa sprofondare nell'abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta” e, aggiungo io, ai graffiti della grotta paleolitica dell'isola di Levanzo alle Egadi. Ma viaggiare nel Meditterraneo significa anche sprofondare in una rutilante, spesso mal digerita, modernità, in un gorgo sincretico pericoloso quanto lo Scilla e Cariddi odissiaco. Penso alle inutili urbanizzazioni balneari che accomunano la costa siciliana a tante altre del Mediterraneo o i più recenti faraonici porti turistici, o ancora i novecenteschi paesaggi industriali di Gela e Augusta. Differenti i pericoli, comuni le intemperie ambientali che continueranno ad affliggerci per anni (o per secoli?).
Differenti rimangono lingue, culture e religioni, malgrado l'onda commerciale globalizzatrice degli ultimi vent'anni. Ma del resto quale mare può vantare una così lunga storia di incontri e scontri come il Mediterraneo? e in questa plurimillenaria avventura commerciale quale mare ha mantenuto una ostinata, affascinate pluralità di identità? Mi sono così ritornate in mente le parole di Fernand Braudel che, a Trapani, Sciacca, Siracusa, Malta, Tunisi, Palermo e negli altri approdi toccati, continuano a essere utilissime per cercare di capire cos'è questo Mediterraneo: “Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre”. E viaggiare nel Mediterraneo, prosegue sempre Braudel, “Significa sprofondare nell'abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta” e, aggiungo io, ai graffiti della grotta paleolitica dell'isola di Levanzo alle Egadi. Ma viaggiare nel Meditterraneo significa anche sprofondare in una rutilante, spesso mal digerita, modernità, in un gorgo sincretico pericoloso quanto lo Scilla e Cariddi odissiaco. Penso alle inutili urbanizzazioni balneari che accomunano la costa siciliana a tante altre del Mediterraneo o i più recenti faraonici porti turistici, o ancora i novecenteschi paesaggi industriali di Gela e Augusta. Differenti i pericoli, comuni le intemperie ambientali che continueranno ad affliggerci per anni (o per secoli?).
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