Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

domenica 26 febbraio 2012

Incontri


Mercoledì 29 febbraio 2012, ore 21

Adriatico selvaggio, che verde è come i pascoli dei monti …
Una passeggiata in riva al mare, ricca di suggestioni naturali, storiche e letterarie guidata da Fabio Fiori

Associazione Il Mignolo Verde di Cesena
Sala ex Refettorio della Chiesa dell'Osservanza
Viale Osservanza 198, Cesena -FC- (di fianco al cinema Astra)

lunedì 20 febbraio 2012

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare” Joseph Conrad

Difficilissimo è preservare memoria dei mestieri e, a maggior ragione, di quelli del mare. Ambiente inospitale, pericoloso, immutabile, visto e vissuto da un novero ristretto di uomini particolari e per di più tradizionalmente taciturni, un tempo spesso illetterati. La scia della nave, grande o piccola, è l'insuperabile metafora di questa impossibile aspirazione umana di segnare le acque, d'incidere il tempo. Scie di eroici velieri eroici o di umili barchette, tutte belle per quanto effimere, poetiche per quanto evanescenti.
Perciò acquista ancora più valore il paziente e curatissimo lavoro che Luigi Divari porta avanti da anni, in punta di penna e di pennello. Un opera che si è arricchita di Mestieri e barche di mare e di laguna, una cartella contenente sedici stampe da altrettanti acquarelli di medio formato, 47x30 cm, pubblicati in 200 copie da “Il Leggio” di Sottomarina di Chioggia (acquistabile online http://www.maredicarta.com/). Tavole da ammirare e leggere con attenzione, perché ricchissime di particolari pittorici e annotazioni che sono il frutto di svariate passioni dell'autore, associate alle sue indubbie capacità di colore e parola. Luigi Divari riunisce culture materiali e intelletuali, essendo abile di mano e d'ingegno, sapendo ben maneggiare un remo, una vela o una lenza, come un manoscritto, una stampa o una testimonianza orale.
Se inevitabilmente le acque di partenza e il grosso del lavoro riguarda la famigliare laguna di Venezia e le sue genti, non mancano barche, reti e pesci di altre rive alto adriatiche.
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Ci sono tavole dedicate a gaeta istriana, zopolo triestino, tonera di Santa Croce, al barchetto romagnolo, utilizzate rispettivamente per la pesca delle spugne, dell'alletterato, del tonno, di pesci da fondo. Con grande attenzione sono descritte le reti e le tecniche, le caratteristiche e le stagioni della pesca.
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Informazioni puntuali e disegni precisi ed evocativi, capaci di ravvivare curiosità e fantasie, di mantenere viva la memoria. Ritualità e strumenti antichissimi, che hanno forgiato una cultura peschereccia adriatica di grande valore. Ptrendendo il largo a bordo dei bragozzi di Luigi Divari, andiamo a pescare a spontiero o a cocia lungo le coste venete nel periodo primaverile, quando la seppia è la prima specie bersaglio. Un tempo quelle molto grosse erano abbondanti ed era comune lavorarle a bordo. Innazitutto si toglievano gli ossi, i batei, poi l'inchiostro, i neri, le uova, i risi e i lati, ognuno dei quali aveva un suo mercato. Ciò che rimaneva veniva steccato, ossia tenuto aperto con tre bacchette di legno, per essere poi appeso a seccare. In quattro o cinque giorni, le seppie diventavano scure e “simili a pezzi di cuoio”. Queste venivano poi commercializzate in Grecia, dove le rigide prescrizioni alimentari ortodosse prevedevano nei giorni di magro di “consumare solo pesci senza sangue, come appunto la seppie o i calamari”. Ma a Chioggia non si pescava solo pesce, infatti c'erano anche i sabionanti, cavatori di sabbie per l'edilizia, che avevano barche e attrezzi appositi, primo tra tutti il bailon, il badilone. Le loro robuste e capienti barche erano costruite apposta per quel mestiere e, malgrado le forme molto marine, “la loro vita trascorreva tutta tra le acque interne di fiumi e canali”.
Infine Divari dedica la tavola più poetica alle marinanti, le donne che a remi o a vela portavano i prodotti orticoli da un'isola all'altra della Laguna; famose a Venezia anche come regatanti.
Noi solazieri o filonautici, per usare un termine in uso alla fine dell'Ottocento nei salotti eleganti veneziani, cioè diportisti, ogni volta che stringiamo un remo rendiamo omaggio anche all'antichissima genia dei rematori, rinnovando con il nostro piacevole esercizio le loro inusitate fatiche.

L'articolo completo è stato pubblicato oggi sul Corriere Romagna e può essere letto
http://www.corriereromagna.it/aria-di-mare

sabato 11 febbraio 2012

Il nostro mare quotidiano


Ancora una volta, in maniera violenta e repentina, l'Adriatico si è trasformato in un candido, gelido, Mare del Nord. Questa mattina, camminando lungo le rive ghiacciate sferzate dalla Bora ho ripensato ai racconti fatti dai vecchi del mitico 1929, l'anno del nevone, e alle pagine di Iosif Brodskij, all'odore di "alghe marine sotto zero, ... sinonimo di felicità".

Neve, parola magica, candido, occasionale, incantesimo delle medie latitudini, di mondi cadenzati dall'eterno incedere delle stagioni. Una parola che rimanda alla montagna, in apparenza quindi poco mediterranea, se si considera erroneamente solo l'estensione acquea.
Perché il nome stesso del Mediterraneo può trarre in inganno, essendo infatti a ben vedere più che un mare medio tra le terre, un mare medio tra le montagne. Una profonda, antichissima, frattura tra grandi corrugamenti, una lacerazione tra enormi masse continentali.
E poi come tacere l'assonanza fonetica tra neve e nave, entrambi vascelli fluttuanti, piccolissimi e inermi, se confrontati alle sconfinate vastità aeree e marine. Entrambi delicati cristalli portati dal vento, in balia dei suoi umori benevoli o malevoli, sempre determinanti per l'esito del viaggio.
Rimanendo alle geografie meteorologiche adriatiche, la neve è il frutto dell'incontro tra la gelida aria continentale, proveniente da oriente, e quella umida atlantica, che arriva da occidente. Un abbraccio invernale, che dà all'Adriatico una veste nordica, inusuale, insieme incantata e terribile. Incantata per chi vede la neve imbiancare le spiagge e le scogliere o osserva i singoli, minuscoli, bianchi, cristalli immergersi-dissolversi nel grande, grigio, mare. Terribile per chi, ogni anno, deve comunque bagnare le mani nell'acqua anche sotto la neve per salpare le reti, stringere una cima indurita dal ghiaccio, navigare contro le sferzate del vento che sbattono in faccia gelidi aghi. Nel nord Adriatico la neve non è un episodio eccezionale, è da sempre una variabile attesa dei lunghi mesi invernali, quelli in cui un tempo la navigazione era preclusa in primis dagli accidenti atmosferici, ma saggiamente anche dalle leggi della Serenissima.
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Nevicate e arie siberiane hanno cadenzato, ad intervalli più o meno lunghi, anche la millenaria storia adriatica. Le immagini della laguna di Venezia completamente ghiacciata o dei moli di Trieste trasformati in banchise polari, i racconti delle tempeste di neve che hanno reso drammatiche le traversate o anche le navigazioni costiere, ci ricordano che l'Adriatico si spinge più a nord di qualsiasi altro mediterraneo.
Le cime montuose imbiancate rimangono poi un monito della settentrionalità adriatica, spesso anche nelle tiepide giornate primaverili. I bianchi fiori dei ciliegi istriani dialogano con le altrettanto bianche Alpi Carniche e Giulie. Le montagne innevate si specchiano nelle acque del golfo del Quarnero come lungo la costa abruzzese o nel fiordo montenegrino; spettacoli di luce che rendono ancor più lunghi e incantati i crepuscoli.

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Neve o delle bizzarrie del cielo e del mare è un lemma di Abbecedario Adriatico. Natura e cultura delle due sponde” (Diabasis, 2008)