Riparto, a vela. Lascio le coste italiane per attraversare il Mediterraneo sulla rotta opposta a quella oggi più battuta. Mi imbarco a Trapani per raggiungere la costa africana, Djerba, navigando uno dei tratti di mare più trafficati fin dall'antichità: il famigerato Canale di Sicilia. So bene quanto questa navigazione abbia rappresentato una via preferenziale di incontro e scontro tra due continenti e cento, mille civiltà. So altrettanto bene quanto questa rotta oggi sia innanzitutto legata alla speranza di centinaia di migliaia di africani in cerca di un futuro migliore. Nelle scorse settimane ho ascoltato i racconti di Gabriele Del Grande, che da anni segue le vicende delle migrazioni documentandole attraverso il suo blog. Storie drammatiche, come ci ricordano in maniera frettolosa e tendenziosa la maggior parte dei media, ma insieme stracariche di attese, di speranze in una vita migliore. Perché le storie delle emigrazione sono anche storie di entusiasmi inusitati, oltre che di inumani sacrifici, come ci ricorda Del Grande nelle pagine del libro “Il mare di mezzo”.
Se il mio partire è innanzitutto un viaggio di scoperta sensoriale e di studio, consapevole del fatto che il Mediterraneo va misurato sulla scala degli uomini, seguendo la lezione di Fernand Braudel, è altrettanto inevitabile che navigare a vela significa anche avvicinarsi concretamente alla grandezza del mare, insieme dolcissima e feroce.
“Partire, lasciare questa terra [il Marocco] che non ne voleva più sapere dei suoi figli, voltare le spalle a un paese così bello per poi tornare, un giorno a testa alta e forse ricco, partire per salvarsi la pelle, pur rischiando di perderla ...”. Anche di queste parole, che danno corpo al romanzo “Partire” di Tahar Ben Jelloun, cercherò di fare tesoro in questa lunga veleggiata tra le due rive del Mediterraneo.
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