Esattamente centoventi anni fa Joshua Slocum completava, per la prima volta nella storia, il giro del mondo in barca a vela in solitario. Una navigazione leggendaria raccontata in un libro, “Solo intorno al mondo”, che è ancora oggi la bibbia dei navigatori oceanici e della ben più numerosa schiera dei sognatori oceanici. Dopo di lui in tanti hanno utilizzato la vela per avventure sportive, di scoperta o semplicemente per vagabondare. Se la rotta più battuta è quella che sfrutta la fascia tropicale, andando da est a ovest con gli Alisei in poppa, passando per lo Stretto di Panama, non sono mancate e non mancano le rotte sulle latitudini meridionali, doppiando i grandi capi, o addirittura quelle polari. Un giro del mondo in barca a vela oggi, ai tempi delle immagini satellitari, delle previsioni meteorologiche scientifiche, della comunicazione planetaria, dei sistemi di posizionamento satellitari è, per molti aspetti, sicuramente più semplice. Ma l'oceano è grande, le burrasche pericolose e, paradossalmente, la pirateria più diffusa e feroce, rispetto a qualche decennio fa. Così, soprattutto in Italia, sono in pochi quelli che hanno fatto queste esperienze veliche. Tra questi Rodolfo Ridolfi, nato e cresciuto a Ferrara, ma concepito a Cesena da genitori romagnoli trasferitisi nella città estense per motivi di lavoro. Romagnolo anche per adozione marinaresca, legata alla lunga frequentazione dei porti e delle acque adriatiche.
Innanzitutto vorrei chiederti se pensi di appartenere a quella che Bernard Moitessier, uno dei pionieri della navigazione oceanica, chiamava la famiglia degli “uccelli d'altomare”? Obiettivamente chiunque esca dagli Stretti è un uccello d'alto mare. Dal punto di vista soggettivo è uno stato dello spirito. Chi impiega venti mesi per fare il giro del mondo è più un regatante; chi naviga senza scadenze certe se non le sole regole delle sequenze climatiche segue la natura, come gli uccelli d'alto mare che migrano nei ritmi delle stagioni.
Partendo invece dal dato biografico, sei nato nel 1951 ma, come scrivi nel tuo libro “Il Mediterraneo lasciato a poppa” (Rodolfo Ridolfi, 2009; Il Frangente, 19 euro) sei poi rinato vent'anni fa nel 1998, in che senso?
Sono nato in un periodo di transizione, l'immediato dopo guerra, quello della generazione sessantottina. Ho assaggiato tutti i fermenti innovativi della rinascita bellica: la beat generation, gli hippy flowers, la guerra nel Vietnam. Ma non ne assorbii alcuno, facendomi sentire spaesato senza un basamento esistenziale consolidato. Nel 1998, "nel mezzo del cammin della vita" successe un avvenimento che mutò radicalmente la mia vita, ma per questo rimando alla lettura del libro.
La tua passione per la vela è esplosa improvvisamente o è cresciuta piano piano?
Da adolescente ero di salute cagionevole e il dottore consigliò i miei genitori di farmi respirare l'aria del mare, ricca di sale. Un "giorno sulla spiaggia" avvenne l'incontro improvviso che mi fece innamorare della vela.
Quali i maestri, quelli conosciuti personalmente o attraverso i loro libri?
Sono un autodidatta. I libri mi hanno infatuato ma da essi ho appreso anche molta teoria. La pratica è avvenuta per conto mio e navigando con amici. Poi ho iniziato a fare regate, che sono un corso accelerato di apprendimento, conoscendo marinai da cui ho imparato molto.
Venendo invece al giro del mondo che hai fatto tra il 2003 e il 2007, quando e come è maturata l'idea?
Quel "giorno sulla spiaggia" è nato il sogno.
Perché hai scelto un OVNI 32, di circa 10 metri di lunghezza, una barca d'alluminio a deriva mobile, abbastanza inusuale per il panorama italiano?
E' una scelta soggettiva che va contro la mentalità italiana. All'estero e soprattutto in oceano, la percentuale di barche in metallo e anche a deriva mobile è superiore a quelle che navigano in Italia e in Mediterraneo.
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L'intervista completa è stata pubblicata sul Corriere Romagna del 5 marzo 2018