Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

giovedì 13 marzo 2014

Biblioteca di mare e di costa

Franco Arminio sta alla poesia come Michelangelo Pistoletto all'arte. Con la differenza che se le opere di uno dei padri dell'Arte Povera sono entrate nei musei, nei manuali di storia dell'arte e da poco anche nei programmi televisivi del sabato sera, gli scritti di Franco Arminio rimangono una gioia per pochi, perciò ancora più intima. Un piacere rinnovatosi con l’ultimo libro, “Geografia commossa dell’Italia interna” (2013; Bruno Mondadori, Milano; pp 132; 14 €).

Il parallelo con l'Arte Povera credo sia pertinente, se si considera che Franco Arminio sa magistralmente accostare “la poesia alla desolazione, la desolazione alla poesia”. Entrambi sono lavori tesi “alla registrazione “dell’irrepetibilità di ogni istante””, riprendendo le parole di Germano Celant che a sua volta citava proprio Pistoletto.
Arminio lo fa innanzitutto descrivendo i suoi vagabondaggi, quelli di un “flâneur della desolazione” che da anni va di paese in paese, non quelli delle bandiere arancioni o blu, ma quelli che hanno alzato la bandiera bianca della resa, a una modernità a sua volta sfinita. Luoghi che non sono “uno sfondo dove sfiliamo con le nostre ombre. Sono terra e carne, vento, respiro, luce, storia che non si è mai fermata e mai si fermerà”. Franco Arminio si definisce innanzitutto un paesologo, maestro di una disciplina indisciplinata, che “raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire, dice quel che vuole dire”, con una attenzione particolare ai margini e alle periferie, urbane e umane.
Leggendolo, ma soprattutto ascoltandolo, vengono in mente antichi cantastorie o per meglio dire, nel suo caso, poetastorie. Perché, qualunque sia la cifra stilistica prescelta, in ogni sua storia c'è una vibrante tensione lirica. Che sia la poesia, nella forma breve dell'haiku o in quella lunga del poema, il racconto o l'aforisma, Arminio riesce sempre a far alzare in volo le parole. La poesia per Arminio “non è il fiore all'occhiello, è l'abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa”. Una ricerca che dovrebbe vederci attivi non in patinati altrove vacanzieri, ma nelle opache periferie quotidiane. Perché, anche passeggiando sul lungomare della infinita riva urbana mediterranea, c'è sempre una voce di bambino o di vecchio da ascoltare, un grigio del cielo o del mare da ricordare, un'increspatura del mare o della spiaggia da vedere. Abitiamo luoghi che chiedono attenzione, fragili e sciupati, capaci comunque di regalare emozioni.  
In quest'ultima raccolta di testi, apparsi negli ultimi anni su giornali e riviste, ciò che sembra emergere con ancora maggior forza rispetto ai precedenti libri, è il parallelo tra lo stato del corpo e quello del paesaggio, tra la salute dell'autore e quella del Meridione. Quella che Arminio qui tratteggia è una vera e propria anatomo-geografia, una dissertazione che è innanzitutto dissezione, un'autopsia di strade e piazze, di parcheggi e cavalcavia, di nuove miserie e vecchie consuetudini. E', come riassume il titolo, la geografia commossa dell'Italia interna, uno sguardo comunque utile anche a chi voglia osservare criticamente anche l'altrettanto precaria Italia costiera.
Chiudo con un verso augurale, che apre quest'ultimo lavoro di Arminio: “Concedetevi una vacanza / intorno a un filo d'erba / dove non c'è il troppo di ogni cosa / dove il poco ancora ti festeggia”.