Franco Arminio sta alla poesia come Michelangelo Pistoletto
all'arte. Con la differenza che se le opere di uno dei padri dell'Arte Povera
sono entrate nei musei, nei manuali di storia dell'arte e da poco anche nei
programmi televisivi del sabato sera, gli scritti di Franco Arminio rimangono
una gioia per pochi, perciò ancora più intima. Un piacere rinnovatosi con
l’ultimo libro, “Geografia commossa dell’Italia interna” (2013; Bruno
Mondadori, Milano; pp 132; 14 €).
Il parallelo con l'Arte Povera credo sia pertinente, se si
considera che Franco Arminio sa magistralmente accostare “la poesia alla
desolazione, la desolazione alla poesia”. Entrambi sono lavori tesi “alla
registrazione “dell’irrepetibilità di ogni istante””, riprendendo le parole di
Germano Celant che a sua volta citava proprio Pistoletto.
Arminio lo fa innanzitutto descrivendo i suoi vagabondaggi,
quelli di un “flâneur della desolazione” che da anni va di paese in paese, non
quelli delle bandiere arancioni o blu, ma quelli che hanno alzato la bandiera
bianca della resa, a una modernità a sua volta sfinita. Luoghi che non sono
“uno sfondo dove sfiliamo con le nostre ombre. Sono terra e carne, vento,
respiro, luce, storia che non si è mai fermata e mai si fermerà”. Franco
Arminio si definisce innanzitutto un paesologo, maestro di una disciplina
indisciplinata, che “raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire,
dice quel che vuole dire”, con una attenzione particolare ai margini e alle
periferie, urbane e umane.
Leggendolo, ma soprattutto ascoltandolo, vengono in mente
antichi cantastorie o per meglio dire, nel suo caso, poetastorie.
Perché, qualunque sia la cifra stilistica prescelta, in ogni sua storia c'è una
vibrante tensione lirica. Che sia la poesia, nella forma breve dell'haiku o in
quella lunga del poema, il racconto o l'aforisma, Arminio riesce sempre a far
alzare in volo le parole. La poesia per Arminio “non è il fiore all'occhiello,
è l'abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di
cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa”. Una ricerca che dovrebbe vederci attivi
non in patinati altrove vacanzieri, ma nelle opache periferie quotidiane.
Perché, anche passeggiando sul lungomare della infinita riva urbana mediterranea, c'è sempre una voce di bambino o di vecchio da ascoltare, un grigio
del cielo o del mare da ricordare, un'increspatura del mare o della spiaggia da
vedere. Abitiamo luoghi che chiedono attenzione, fragili e sciupati, capaci
comunque di regalare emozioni.
In quest'ultima raccolta di testi, apparsi negli ultimi anni
su giornali e riviste, ciò che sembra emergere con ancora maggior forza
rispetto ai precedenti libri, è il parallelo tra lo stato del corpo e quello
del paesaggio, tra la salute dell'autore e quella del Meridione. Quella che
Arminio qui tratteggia è una vera e propria anatomo-geografia, una dissertazione
che è innanzitutto dissezione, un'autopsia di strade e piazze, di parcheggi e
cavalcavia, di nuove miserie e vecchie consuetudini. E', come riassume il
titolo, la geografia commossa dell'Italia interna, uno sguardo comunque utile
anche a chi voglia osservare criticamente anche l'altrettanto precaria Italia
costiera.
Chiudo con un verso augurale, che apre quest'ultimo lavoro di Arminio: “Concedetevi una vacanza / intorno a un filo d'erba / dove non c'è il troppo di
ogni cosa / dove il poco ancora ti festeggia”.