Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

mercoledì 29 dicembre 2010

Il nostro mare quotidiano

Giorni di festa, del pagano Sol invictus o del cristiano Natale. Giorni d'inverno, di freddo, di pioggia, di neve, di sole o di vento. Giorni comunque disponibili per riprendere il cammino lungo le nostre stuprate e comunque amate rive urbane. Spiagge libere dall'occupazione balneare, banchine sgombre dalle flotte di glamour-yacht. Il mare d'inverno rimane ancora un ambiente per solitari esploratori. Lungo le coste si allenta il controllo, diventa più facile attraversare zone vietate, affacciarsi su spazi privati, per riscoprire il nostro bene comune. Il nostro mare quotidiano, che ogni giorno di più cerca di esserci precluso, lottizzato, venduto e recintato.
Nell'ottobre scorso il rapporto “Paesaggi di costa” di Italia Nostra ha rilanciato il dibattito sul degrado costiero italiano. Su “Il Giornale dell'Architettura” di Novembre hanno articolato il confronto, con due loro scritti, Aimaro Isola e Rosario Pavia. Quest'ultimo con pragmatica sensibilità ci ricorda che “La linea di costa è tra le reti quella che maggiormente realizza l’incontro tra natura e artificio, è una rete ambientale e infrastrutturale. Lo è da sempre, ma oggi con maggiore intensità”. Una considerazione preliminare, necessaria per chiarire che il nodo irrisolto dello scempio fatto delle coste sta nel poco e male affrontato problema della loro duplicità, del loro “essere rete ambientale e nello stesso tempo indispensabile rete infrastrutturale”.
Se Pavia chiede a tutti noi un necessario sforzo per andare oltre la pur doverosa denuncia dello sfascio ambientale delle coste, Aimaro Isola con altrettanta lucidità afferma che per approcciare i problemi: “Occorre koiné, ma anche philìa: amicizia verso i luoghi, soprattutto verso quelli che stanno soffrendo. Dobbiamo aver cura e raccogliere, prendere in mano ogni frammento di un mondo lacerato, (de)costruirlo, (ri)costruirlo, (ri)conoscerlo: réconnaissance, cioè essere riconoscenti. Per questo occorre metter in campo i propri saperi e le proprie esperienze, aggiornarli con il dubbio ma anche con il coraggio”.
Riprendendo il titolo dell'articolo di Isola, “Riviere. Abbiamo paura, ci vuole coraggio”, vorrei soffermarmi su cosa può significare oggi avere coraggio, per affrontare l'innegabile situazione di degrado ambientale, urbanistico e, in alcuni casi, economico, in cui versa la maggior parte delle coste italiane. Se il coraggio del dopoguerra si è manifestato attraverso la ricostruzione, degenerando poi spesso nella stra-costruzione, oggi in questo dopoguerra liberista bisogna innanzitutto avere il coraggio di restituire l'originario e imprescindibile libero accesso al mare. Solo attraverso una collettiva riappropriazione del mare che bagna le rive urbane si potrà ridare a questi ambienti duratura e condivisa qualità. Certi che si possa raggiungere un moderno equilibrio tra necessità infrastrutturali, abitative, ambientali ed economiche solo riscoprendo e aggiornando l'autentico valore della “misura”, di cui in tempi recenti ci ha parlato Franco Cassano nel libro “Il pensiero meridiano”. Non potrà esserci progetto di riqualificazione urbana e ambientale senza avere il coraggio di mettere in discussione il dogma dell'infinita crescita economica. Non potrà esserci progetto di miglioramento abitativo o infrastrutturale senza avere il coraggio di uscire dalla frenesia consumistica. Con coraggio dobbiamo batterci per rivendicare il mare come bene comune, certi che partendo da questo principio generale si possano poi discutere, condividere e realizzare i migliori interventi per ridare dignità al paesaggio costiero.

martedì 14 dicembre 2010

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Nella scelta fatta da Marilena Giammarco di mettere “I dioscuri” di Giorgio de Chirico, nella copertina del suo nuovo libro (“Il «verbo del mare». L'Adriatico nella letteratura I. Antichi prodormi, riletture moderne”; 2009. Palomar, Bari; pp 208, € 20), emerge in maniera chiara lo strettissimo legame tra la cultura greca classica e l'Adriatico. Ma “Castore e Polluce, luce e ombra”, sono anche una perfetta metafora della duplicità adriatica, dell'opposizione tra Oriente e Occidente, tra settentrione e meridione, tra continentalità europea e marinità mediterranea, tra nebbia e sole, tra sabbie e rocce, tra bora e garbino. Il libro è pubblicato nella Collana Odeporica, diretta da Giovanna Scianatico, strumento editoriale del Centro Interuniversitario Internazionale di Studi sul Viaggio Adriatico ( www.viaggioadriatico.it ).
Ritornando alla dimensione storica riassunta dall'autrice, Spina, Pharos sull'isola di Lissa e Ancona sono solo i più famosi degli scali greci presenti in Adriatico, punti d'arrivo per quei coloni che trovarono lungo le sponde di questo mare un sicuro e proficuo approdo. Ma quegli empori divennero anche snodi fondamentali per la diffusione della cultura greca in Occidente.
Questo della Giammarco è il primo volume di un'opera dedicata alla riscrittura di “un'altra storia” dell'Adriatico, a partire dalla letteratura. A riguardo è necessario evidenziare come questo Mare Superum latino che poi per secoli sarà il Golfo di Venezia, abbia ispirato centinaia di autori, di culture e provenienze differenti che, con i loro testi, hanno lentamente contribuito a costruire una delle più ricche letterature se non proprio marinaresche comunque d'ambiente marino. Questo lavoro partendo dalla natura e dai miti dell'Adriatico, tra cui quelli delle misteriose isole Elettridi e delle bellissime isole Tremiti, ricostruisce una geografia “Per acque e per terre”, articolata in pelago e rive, laghi e lagune, fiumi, montagne e isole, per concludersi infine con le narrazioni di “Tempeste e naufragi”, dall'età classica alla seicentesca “Dodicesima notte” di Shakespeare, ambientata in un'imprecisata città dell'Illiria. Un libro che oltre ad essere una preziosa antologia adriatica restituisce “l'infinità varietà delle forme che lo compongono”, utilissime anche a dimostrare la sua “irriducibile sovranazionalità”, senza dimenticare che “L'Adriatico non è solo il mare di D'Annunzio”.

sabato 4 dicembre 2010

Il nostro mare quotidiano

“Salvare il nostro paesaggio è un dovere civile”, ha detto Salvatore Settis in una lunga intervista pubblicata ieri da La Repubblica, in occasione dell'uscita del suo nuovo libro: ”Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile” (Einaudi; pp. 326, € 19). Per tutelare il paesaggio dai continui, feroci, assalti edilizi a margine dell'articolo viene fornito un decalogo, utile a tutti coloro, singoli o associazioni, che continuano a battersi contro gli scempi, spesso con incredibili sforzi a fronte di un'enorme disparità di mezzi tecno-economici. Un decalogo che mi permetto di scrivere manca di un punto 0, imprescindibile: “Abitare il paesaggio è un diritto-dovere”, a partire da quei paesaggi che circondano le nostre case e le nostre strade, ma anche i nostri centri commerciali e i nostri capannoni, quella diffusa periferia che è oggi l'Italia. Abitare nel più profondo e quotidiano dei significati, abitare con piacere. Quello che dovrebbe regalare il camminare e il pedalare, il nuotare e il remare, le pratiche del gioco e del lavoro di ogni giorno. Solo una ostinata frequentazione ci permetterà di rompere l'unico deleterio, addirittura criminale, imperativo consumistico, capace di trasformare il territorio in una merce che “vale non perché possiamo viverlo, ma solo in quanto può essere occupato, prezzato, cannibalizzato”. Senza esperienza materiale e frequentazione abituale, credo che qualsiasi appello alla salvaguardia, per quanto condivisibile e allarmante, rischia di rimanere inascoltato. Senza una diffusa riappropriazione fisica del paesaggio, inteso come bene comune da condividere nei piaceri del vissuto quotidiano, non ci sarà alcun riscatto da questo degrado ambientale che è diventato “parte di un degrado che investe le regole del vivere comune”. Perciò, anche da insegnante , prendendo spunto dal terzo paradosso evidenziato da Salvatore Settis, mi sento di puntualizzare che prima ancora di portare la parola paesaggio dentro le scuole, dobbiamo portare la scuola, gli alunni, nel paesaggio. Non in quelli esotici che le agenzie vendono alle famiglie e forse neanche in quelli incontaminati protetti dai parchi e meta privilegiata delle gite scolastiche. Dobbiamo innanzitutto portarli a piedi e in bici o, perché no, a remi e a vela, nei paesaggi del quotidiano. I nostri figli, e più in generale gli italiani, per prendere coscienza dell'inestimabile valore del paesaggio più che di immagini hanno bisogno di chilometri, più che di leggere e ascoltare hanno necessità di camminare e pedalare.
Declinando le considerazioni di Salvatore Settis allo specifico di questo progetto, bisogna senza alcuna nostalgia prendere atto che è saltato l'equilibrio città-costa. Se la battaglia per la difesa di quei minuscoli frammenti di coste naturali va sostenuta con determinazione, non meno impegno dobbiamo dedicare al restauro, un restauro non conservativo di tutto ciò che per altro è irrimediabilmente perduto, ma un restauro ambientale che restituisca l'inalterata immensità del mare alla nostra riva-urbana, vissuta spesso come inospitale residenza.

venerdì 19 novembre 2010

Notizie


IN RIVA AL LAGO SI STUDIA IL MARE
Giornata sulla didattica della scienza il 29 novembre a Villa Brunati

L'Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Desenzano, in collaborazione con
il Cinsa - Consorzio interuniversitario nazionale scienze ambientali - e la
cooperativa City Service di Brescia, promuove lunedì 29 novembre dalle 9 alle
17.30 nella sala delle Muse di Villa Brunati una giornata dedicata alla
didattica delle scienze naturali, rivolta in particolare al tema dell'acqua,
del mare e del nostro lago.
Nell'ambito di questa iniziativa proporrò una relazione sulla scrittura di viaggio intitolata: "Scrivere sul mare".

lunedì 15 novembre 2010

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Con la precisione e la sintesi di un esperto marinaio associata all'attenzione dello storico, Davide Gnola ci restituisce in poco più di cento pagine le gesta di Garibaldi, uomo di mare, come titola il primo capitolo del suo nuovo libro “Diario di bordo del capitano Giuseppe Garibaldi” (Mursia, Milano pp. 208; € 17). Quella del Generale è infatti fin dalla nascita a Nizza il 4 luglio 1807 “in una casa affacciata al porto vecchio”, la storia di un bambino che decide di farsi mozzo, per poi diventare capitano e corsaro, tralasciando le sue altre numerosissime vicende personali, rivoluzionarie e politiche. Mozzo lo diventò per scelta, ribellandosi al padre, padrone marittimo, che avrebbe preferito non vederlo salire a bordo. Il brigantino Costanza fu il suo primo ponte, da cui guardava innamorato la “snella tua alberatura, la spaziosa tua tolda e sino al pettoruto busto di donna”, con riferimento all'immancabile polena. Le ricerche portate avanti da Gnola nella smisurata bibliografia dedicata all'eroe, nel poco frequentato Archivio di Stato di Palermo e in altre sedi, hanno consentito per la prima volta di ordinare le vicende marinaresche di Garibaldi, come evidenzia Mino Milani nella postfazione. Il libro pagina dopo pagina, o sarebbe meglio dire miglia dopo miglia, trasporta il lettore lontano, dal Mediterraneo al Mar Nero e poi oltre lo stretto di Gibilterra verso gli smisurati orizzonti oceanici, in un continuo avvicendarsi di storie e avventure, di “uomini ( marinai, capitani, armatori, mercanti, avventurieri e così via) e navi (a vela, a vapore, a elica, a pale, clipper e di nuovo così via), riprendendo le parole di Milani.
L'apparato iconografico ci restituisce oltre alla più stereotipata immagine delle gesta eroiche del Generale, anche quella meno conosciuta di pescatore e le sempre imaginifiche carte nautiche di mari lontani, navigati e combattuti dall'uomo Garibaldi. Proprio a questa dimensione personale è da ascrivere un episodio dell'età senile, quando nel settembre del 1867 riesce a sfuggire agli arresti domiciliari a Caprera, a bordo di un piccolo “beccaccino” con cui raggiungerà una paranza che lo porterà sulla costa toscana.
Il libro si completa con la trascrizione del Giornale di bordo del bastimento Georgia del brigantino Carmen ecc., per la maggior parte autografo di Garibaldi, che oltre ad essere un utile strumento di approfondimento delle vicende, restituisce nei suoi errori ortografici il “particolare “colore” dell'originale”.

giovedì 4 novembre 2010

Il nostro mare quotidiano

Le rive del mare: da spazi pubblici a labirinti del consumo, parafrasando Franco La Cecla.
Potrebbe essere questa in estrema sintesi la descrizione dell'ultimo orizzonte paesaggistico delle coste italiane?
L'antropologo siciliano, già apprezzato autore tra gli altri di “Perdersi. L'uomo senza ambiente” (Laterza, 1998 ) e “Contro l'architettura” (Bollati Boringhieri, 2008), ci propone sul Venerdì di Repubblica del 29 ottobre 2010, una breve disamina delle opposte idee occidentali di spazio pubblico. C'è chi vorrebbe controllare, commercialmente e poliziescamente, ogni luogo e chi invece ritiene che la libertà sia un concetto da applicare, nelle sue imprevedibili e anarchiche soluzioni, almeno agli spazi pubblici. E' superfluo aggiungere che i primi cercano in ogni modo di sostituire i consumatori ai cittadini, mentre i secondi si trovano ormai sul barricate di resistenza civile. Questa disamina, che prende spunto dalla nuova stazione di Milano per allargare lo sguardo su spazi pubblici (o commerciali?) di altre metropoli, è purtroppo sempre più calzante anche per le rive del mare, che siano spiagge libere occupate da stabilimenti balneari, selvagge falesie lottizzate in residence o, altrettanto pericolosamente, accessibili banchine portuali recintate per essere trasformate in esclusivi marina. Basta fare, o spesso cercare di fare!, una passeggiata nei porti liguri per rendersi conto di quanto la logica della maxi-nautica da diporto stia schiacciando ogni altra forma di passione marinaresca, o provare ad avvicinarsi a tante spiagge laziali, senza alcuna intenzione di pagare il biglietto d'ingresso o comunque pedaggio in altra forma.
Se come ci ricorda sempre Franco La Cecla “La piazza è un invenzione italiana”, le rive del mare sono una naturale, costitutiva qualità del paesaggio peninsulare. Non dimentichiamo poi che negli ultimi cinquant'anni la maggior parte delle coste sono state trasformate in rive urbane, declinazione marina delle “campagne urbane” comuni ormai a tanta parte d'Europa. Di queste rive urbane, il mare rimane l'unico orizzonte di libertà, per questo ogni affaccio, che si tratti di spiagge o coste scoscese, strade o larghi, va difeso dall'assalto privatistico, va inteso come bene comune, o pubblico demanio, per usare una definizione ottocentesca che andrebbe aggiornata.
Non mi stancherò di dire e di scrivere che le singole rivendicazioni di gratuità del mare, come tante piccole onde che sovrapponendosi prendono forza, possono trasformarsi in una insopprimibile necessità collettiva di riappropriarsi del Mediterraneo.

lunedì 1 novembre 2010

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare.”
Joseph Conrad


Ho riletto in questi giorni un breve racconto di Ernesto Franco, “Usodimare. Un racconto per voce sola”, pubblicato nel 2007 da Il Melangolo, ritrovando la stessa affascinate e inusuale aria di mare respirata nella prima lettura. Dico inusuale perché sono pochissimi i romanzieri italiani che hanno saputo restituire il respiro del mare e le atmosfere di bordo. Differenti sono le cause di questa rara, quando riuscita, frequentazione marinaresca, a cominciare proprio dalla scarsa conoscenza di un mondo storicamente lontano da quello di terra e ancor più da quello intellettuale. Parafrasando proprio la voce narrante del libro, la navigazione “è retta da leggi autonome, da leggi della natura, indipendenti dalla volontà degli uomini”.
Il protagonista, o per meglio dire la sua ombra, è Pepe Usodimare, solitario e misterioso comandante che zoppica, non solo fisicamente, come il più celebre dei comandanti ottocenteschi. Ne seguiamo le ultime settimane di navigazione a bordo del Bahia Inutil, un vecchio cargo diretto in Bangladesh per la demolizione. In un tempo sospeso, scandito dall'incrocio con una flotta di catamarani fantasma portati da un unico macaco, da giorni di pioggia torrenziale, dall'arrembaggio di moderni e feroci piratas, che rimandano alle epiche gesta di Long John Silver e a quelle concretissime dei moderni pirati. Questi, come appunta Usodimare, “hanno in comune con quelli di ieri la strategia di apparire dal nulla e dal nulla svanire e la tattica di non fare mai ostaggi”. Una parte dell'equipaggio del Bahia, per fortuna o per la grazia di un invisibile clandestino, sopravvive all'attacco e porta a termine l'ultimo viaggio verso “l'infinita spiaggia di fango di Chittagong”. Ma la vera ossessione di Usodimare, che diventa quella di ogni imbarcato, è legata alla ricerca di “qualcosa”, lasciato da Nené, una donna a cui Pepe è “legato da una serie di disincontri. ... l'incontro che sarebbe potuto avvenire. Anzi che sarebbe dovuto avvenire”. Una disperata ricerca, che vede impegnati anche i demolitori, fino all'ultimo rottame, fino a lasciare solo quel “chiodo di Dio” che rimane piantato nel maleodorante fango di questo moderno cimitero marino.

martedì 26 ottobre 2010

Notizie


Si terrà domenica 31 ottobre, nella zona pedonale di piazza Anco Marzio ad Ostia lido, la prima manifestazione del coordinamento per la tutela del litorale romano, spiaggia bene comune.
http://www.spiaggiabenecomune.org/

venerdì 22 ottobre 2010

Il nostro mare quotidiano

A partire da lunedì 25 ottobre 2010, “Il nostro mare quotidiano” sarà anche una rubrica quindicinale pubblicata sull'inserto “Aria di Mare” del Corriere Romagna. Anticipo di seguito l'incipit del primo articolo.

L'inizio dell'autunno in Romagna è uno dei periodi più belli per chi crede che il mare sia innanzitutto sinonimo di libertà. Si svuotano le spiagge e le banchine, si spengono le insegne e gli amplificatori, insomma con lo stemperarsi delle calure estive si allenta anche l'assedio balneare. Lungo la costa romagnola il mare ritorna prepotentemente a rivelarsi nella sua immensità, geografica e sensoriale.
In una stagione in cui le acque e le arie sono ancora tiepide, il mare ci regala, gratuitamente, tutti i suoi infiniti doni. E la riscoperta sensoriale è la prima tappa di quella lunga rotta che, se da un lato è un viaggio di piacere individuale, dall'altro potrebbe, anzi dovrebbe, diventare un viaggio politico collettivo, volto a rivendicare la gratuità del mare.
...

sabato 16 ottobre 2010

Il nostro mare quotidiano

E' stata presentata ieri a Roma l'iniziativa “Paesaggi sensibili 2010: ecco le 50 coste da salvare”, promossa da Italia Nostra. In occasione della Settimana nazionale dei paesaggi sensibili, dal 19 al 24 ottobre 2010, Italia Nostra ha puntato quest'anno l'attenzione sulle coste. Il più “lungo” dei paesaggi italiani, uno dei più estesi e, soprattutto, il più assediato. Da oltre un secolo l'assalto alle rive ha assunto infatti i tratti non solo di un saccheggio ambientale senza precedenti, ma anche di un vero e proprio sconvolgimento urbanistico e sociologico. Gli italiani nel volgere di un secolo hanno abbandonato montagne e campagne per inurbarsi innanzitutto lungo le coste, in lunghissimi iper-paesi costieri. Se a ciò si aggiungono sempre nuovi appetiti immobiliari e un consumo balneare forsennato, quello che rimane è un'infinita, anonima, periferia costiera, ormai per molta parte impresentabile anche dalle più abili agenzie turistiche. Come ha sottolineato Italia Nostra, ““Il mare d’inverno” in molti casi vuol dire degrado e incuria, stabilimenti balneari chiusi e lasciati in pessime condizioni, ma ciò che è ancora più grave, con sbarramenti o lucchetti che impediscono il passaggio alle persone, violando uno dei diritti del nostro Paese, il libero accesso al mare.”. Ed è proprio quest'ultima affermazione il cuore del problema: la privatizzazione delle coste. Perché se come denuncia l'associazione i quattro mali “più gravi alla base dei problemi che stanno deturpando il volto del paesaggio costiero italiano [sono]: infrastrutture portuali e stradali; costruzioni sui litorali; erosioni (causate spesso da porti e costruzioni); abusivismo”, la causa prima rimane la privatizzazione di un bene comune: il mare e le sue coste.
Partecipando a una delle tante e interessanti iniziative programmate dalle sedi locali di Italia Nostra, o semplicemente pretendendo di poter accedere in ogni stagione alle rive e alle acque di casa nostra, si testimonierà la propria determinazione nel richiedere a gran voce lo status di bene comune per il più vasto dei paesaggi italiani: il mare. Una rivendicazione fondata su tre principi: inalienabilità da parte dello Stato, libertà e gratuità di accesso per ogni cittadino. Principi validi a maggior ragione oggi che affollatissime sono le rive urbane, in cui l'orizzonte marino rimane l'unico ambiente in cui poter quotidianamente immergersi, con infinito, libero e gratuito piacere.

giovedì 7 ottobre 2010

Il nostro mare quotidiano

La fatica, piccola o grande, di issare una vela è da millenni il sacrificio che l’uomo rende alla Natura per ingraziarsi i venti.

Anche quest'anno, come da oltre quarant'anni, a Trieste si rinnova la grande festa della vela, chiamata Barcolana.
Le banchine di questa splendida città che si specchia nell'Adriatico, diventano per una settimana il libero proscenio di migliaia di vele, di decine di migliaia di marinai di lungo corso o solo per un giorno. Per tutti la regata domenicale è l'occasione per ritrovarsi, confrontarsi, chiacchierare sulla comune, grande passione della vela.
Nel gergo marinaresco vela sta per nave, “piegar le vele” significa finire una navigazione come qualsiasi altro lavoro, “far vela” equivale a partire, con un più intenso significato malinconico. “Andare a gonfie vele” è ancora in uso, a oltre mezzo secolo dalla definitiva sostituzione della vela con il motore sulle barche da lavoro, a testimonianza dell’efficacia figurativa di questo modo di dire. Sono caduti in oblio invece la maggior parte dei quasi trenta verbi legati al sostantivo. Se issare o ammainare sono abbastanza noti, orzare o poggiare sono termini da velisti, mentre inferire, relingare, murare, cappeggiare, bracciare, sono ormai sconosciuti anche a chi va a vela.
Quadra era la forma della prima vela, forse di foglie di canne intrecciate, poi di fibra di lino, seguita dalla canapa e dal cotone. All'evolversi dei materiali si affiancò quello delle forme geometriche, triangolari o trapezoidali, ognuna con caratteristiche proprie, con prestazioni sempre migliori. Quadre, latine, auriche, al terzo, è solo la più semplice della ripartizione delle differenti vele che venivano armate sulle barche, più o meno antiche. Randa marconi e fiocco, quelle più comuni oggi. Maestra, trinchetta, volante, gabbia, velacci, flocco, controflocco, coltellaccio, belvedere, e altre decine di nomi ancora, erano in uso sulle ultime, grandi e veloci, navi da trasporto. Quella della vela è una storia plurimillenaria, una costante evoluzione di forme, tessuti, tecniche, un viaggio lavorativo interrotto dal motore una cinquantina di anni fa, ma che forse riprenderà in un futuro neanche tanto lontano.
L'enciclopedica complessità di forme e tecniche, di avventure e storie, ancora oggi dissolve felicemente nel semplice, silenzioso, piacere di farsi portare dalla vela da un porto a un altro, di correre il mare in completa armonia con la natura, come uccelli nel vento. La vela si alza con la prua al vento, si drizza prima con forza, si cazza poi a segno a seconda della rotta che si vuol tenere, vento e mare permettendo. La barca come per incanto prende la giusta inclinazione e comincia a muoversi, il timone da appendice morta diventa viva, sensibile, indispensabile. Quando poi il vento supera una certa intensità, il marinaio sa che è opportuno ridurre la tela: terzarolandola o sostituendola con una più piccola. Le vele si issano e si ammainano; i garocci del fiocco scivolano sullo strallo, la relinga della randa segue l'inferitura, la trozza della vela al terzo scorre sull'albero. In antica armonia, come ali di uccelli, le vele coniugano al meglio le istanze della nave con le leggi del vento, portando lontano uomini e merci, sogni e idee.

venerdì 24 settembre 2010

Il nostro mare quotidiano

Spiagge libere! scrivevo nel luglio scorso, auspicando anche la nascita di una rete nazionale per rivendicare il diritto di libero accesso al mare. Con grande soddisfazione inserisco quindi il collegamento al comitato “Spiaggia bene comune”, per la tutela “del litorale del XIII Municipio di Roma”, molto ben organizzato anche per quanto riguarda la comunicazione e l'informazione sul web. Un comitato che si va ad aggiungere agli altri che con tenacia lavorano da anni in Italia, dove la privatizzazione delle spiagge continua nella sua implacabile marcia, a dispetto di tutte le riflessioni critiche in atto sui beni comuni. Perciò insisto sulla necessità che le singole istanze locali riescano a coordinasi per dar forza all'idea che il mare e le sue rive, in un paese immerso nel Mediterraneo, sia il primo dei beni/spazi comuni.
A riguardo di spazi, intesi come beni comuni, è di oggi un lungo articolo di Marc Augé sulla prima pagina di Repubblica. Uno scritto in cui l'antropologo francese riflette, a partire dalla sua personale esperienza, sull'importanza dei parchi pubblici nelle città. Scrive Augé: “Va bene creare stadi, piscine, luoghi strutturati per la formazione di «corpi efficacemente disciplinati», ma è bene anche lasciare che si crei qualche luogo di libera espressione di sé e di confronto con gli altri in spazi che permettono tutto senza imporre nulla”. Una descrizione, quest'ultima, che restituisce perfettamente la fondamentale importanza anche educativa delle spiagge, di quelle libere ovviamente. Le spiagge libere sono infatti, a partire dall'esperienza di chi vive sul mare, “spazi che permettono tutto senza imporre nulla”, che consentono di passeggiare o abbronzarsi, di leggere o guardare l'orizzonte, di giocare o scoprire la natura, a due passi dalle nostre case, in tutte le stagioni dell'anno. Già perché, che ci piaccia o meno, le coste italiane sono ormai un'unica infinita riva urbana, di cui le spiagge devono essere il naturale spazio pubblico di libero e gratuito accesso.

venerdì 10 settembre 2010

Biblioteca di mare e di costa


"Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Scrivevo qualche settimana fa dei piaceri del nuoto, inteso come esercizio fisico e spirituale. Esercizio che con passione continuo a praticare nelle tiepide acque di casa, adriatiche e settembrine.
Al nuotatore “questo eroe” è dedicato il libro di Charles Sprawson “L'ombra del massaggiatore nero”, uscito in Inghilterra nel 1992 e tradotto qualche anno dopo in Italia, per Adelphi. Un testo che malgrado un eccesso di citazionismo e un troppo ampio respiro internazionale, rimane una piacevole lettura, utile a comporre un quadro del nuoto dalla supremazia inglese dell'Ottocento fino agli anni Trenta del Novecento, definito dall'autore il decennio giapponese. Non mancano i riferimenti alla classicità greca e romana, sia sul versante mitologico che storico. Ampio risalto è dato poi agli scrittori nuotatori, dalle note vicende acquatiche romantiche di Byron e Shelley a quelle meno note, ma forse ancor più affascinanti, del regista Akira Kurosawa e Yukio Mishima. “Se Shelley fu il più commovente dei nuotatori, Byron fu universalmente considerato il più grande dei suoi tempi”, Byron che a proposito della sua traversata dell'Ellesponto diceva: “Di quest'impresa vado fiero più che di qualsiasi altra opera, sia politica sia poetica sia retorica”. Dopo un secolo, dall'altra parte della Terra, Kurosawa e Mishima partendo dalla loro esperienza, attribuirono al nuoto una straordinaria importanza, trasponendo questo loro amore in film e libri memorabili. Nelle sue pagine Sprawson, intersecando il vissuto personale alla dimensione saggistica, ha cercato di indagare “La peculiare psicologia del nuotatore, il suo «sentire l'acqua»”.
Più in generale credo che il mare sia una grande palestra per allenare il “sentire”, anche attraverso il quotidiano esercizio del nuoto nelle acque delle nostre città.

mercoledì 1 settembre 2010

venerdì 27 agosto 2010

Il nostro mare quotidiano

Anticipo l'inizio dell'articolo dedicato alle spiagge libere che verrà pubblicato domani 28 agosto 2010 sulle pagine di Cultura e Spettacolo del Corriere Romagna.

Più spiagge libere non significa meno economia, ma “altra economia”.
Da questa sintetica considerazione potrebbe partire una nuova riflessione, sganciata da vecchie categorie ideologiche o da nuove strategie liberiste, accomunate da sterili contrapposizioni. E dove queste idee meglio che nella Riviera Romagnola potrebbero trovare idonei spazi, politici e geografici, di sperimentazione? Qui infatti le spiagge sono storicamente e culturalmente vocate all’innovazione. Novità dai molteplici risvolti economici, novità che oggi potrebbero essere declinate alle più aggiornate visioni ambientali, sociali, culturali e insistiamo di “altra economia”, finanche di decrescita. Decrescita felice! come si conviene agli infiniti piaceri che il mare gratuitamente ci offre.
Per poter approcciare in maniera nuova il problema, anzi le opportunità che offrono oggi le spiagge libere è bene fissare un primo elemento oggettivo. L’attuale uso delle spiagge romagnole, diffusosi in tutto il Mediterraneo, impostato su un modello organizzativo fordista, cioè nella seriale ripetizione dello stabilimento balneare incardinato sui tre dogmi cabina, ombrellone, lettino, è solo un’invenzione relativamente recente. Per chi è più giovane o per chi deve rinfrescare i ricordi basterà sfogliare il catalogo online d’immagini del “Museo virtuale dei bagni di mare e del turismo balneare”, http://www.balnea.net . In pochi click scoprirà o ricorderà che la completa occupazione balneare delle spiagge romagnole è avvenuta solo negli anni Sessanta, quando il turismo a Rimini vantava già più di un secolo di storia. In cento anni quelle spiagge da inutili, ...

mercoledì 18 agosto 2010

Il nostro mare quotidiano

Il nostro mare quotidiano è innanzitutto un gratuito, sempre nuovo, piacere sensoriale.

Nelle scorse settimane Raffaele La Capria ha ripreso sulle pagine del Corriere della Sera il discorso sul nuoto a lui molto caro, sviluppato in bellissimi saggi e suggestive pagine narrative. Lo ha fatto partendo ancora una volta dalla sua personale esperienza, oggi di ultraottantenne, evidenziando come nuotando “lontani dagli sguardi della gente che affolla le spiagge ... si può riaprire il dialogo col mare, che col passare del tempo mi si rivela ogni anno diverso”.
Io penso che il nuoto non sia solo una pratica sportiva, ma al pari del cammino sia una esperienza conoscitiva. Ogni volta, nuotando e camminando rinnoviamo ancestrali esperienze sensoriali, riprendiamo antichissimi viaggi per acque e terre, sempre sconosciute.
A nuoto, possiamo percorre con ritmiche, cadenzate, bracciate il tratto di mare che separa due coste, nelle immobili acque del mattino. Per qualche minuto, del nostro procedere rimane traccia e la nostra scia unisce le rive. Un filo evanescente che la prima brezza dissiperà. Possiamo salire e discendere le onde, alzate da un meridiano vento di scirocco e provare la gioia di una nuda navigazione corporea. Si fatica ad arrampicarsi sulla cresta delle onde, al contrario si gioisce quando si è spinti dalle stesse. L’onda ripida e corta rende difficoltosa la bracciata e la respirazione, più che dell’andare si ha la sensazione del resistere. Sull’onda morbida e lunga, che succede alla burrasca, rimane la difficoltà della salita, ma al contrario si ha il piacere di avanzare tra benevoli flutti. Il corpo in mare, scosso dalle onde, diventa una fragile barca, mossa da remi spesso insufficienti a contrastare la forza marina.
C’è la nuotata che precede il lavoro, quando l’aria fresca dell’alba rende più tiepide le acque, o quella che defatica e rinfresca, fatta nella calda luce del tramonto. Si può nuotare in totale solitudine o cercare un’armonica sintonia con un amico o un’amante. Affinità natatorie non possono che sottendere amicizie o amori, capaci di resistere alle intemperie degli anni.

martedì 10 agosto 2010

Il nostro mare quotidiano

Seicento miglia a vela, diverse decine di chilometri a piedi lungo le rive e poi il bus, la nave e il treno per chiudere un lungo viaggio sulle due coste e attraverso il Canale di Sicilia, spartiacque tra Occidente e Oriente mediterraneo. Un canale che collega l'Europa all'Africa, per chi del mare ha prima di ogni altra un'idea greca: di un mare inteso come pontos. Secondo il “pensiero meridiano” di Franco Cassano, le rotte “del Mediterraneo aprono alla possibilità di un rapporto, di un contatto, anche se esso può essere feroce e terribile”. Ancora una volta andando a vela ho verificato che le distanze mediterranee consentono, anzi obbligano a riflettere e sperimentare un rapporto tra le opposte rive.
Differenti rimangono lingue, culture e religioni, malgrado l'onda commerciale globalizzatrice degli ultimi vent'anni. Ma del resto quale mare può vantare una così lunga storia di incontri e scontri come il Mediterraneo? e in questa plurimillenaria avventura commerciale quale mare ha mantenuto una ostinata, affascinate pluralità di identità? Mi sono così ritornate in mente le parole di Fernand Braudel che, a Trapani, Sciacca, Siracusa, Malta, Tunisi, Palermo e negli altri approdi toccati, continuano a essere utilissime per cercare di capire cos'è questo Mediterraneo: “Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre”. E viaggiare nel Mediterraneo, prosegue sempre Braudel, “Significa sprofondare nell'abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta” e, aggiungo io, ai graffiti della grotta paleolitica dell'isola di Levanzo alle Egadi. Ma viaggiare nel Meditterraneo significa anche sprofondare in una rutilante, spesso mal digerita, modernità, in un gorgo sincretico pericoloso quanto lo Scilla e Cariddi odissiaco. Penso alle inutili urbanizzazioni balneari che accomunano la costa siciliana a tante altre del Mediterraneo o i più recenti faraonici porti turistici, o ancora i novecenteschi paesaggi industriali di Gela e Augusta. Differenti i pericoli, comuni le intemperie ambientali che continueranno ad affliggerci per anni (o per secoli?).

giovedì 15 luglio 2010

Il nostro mare quotidiano

Riparto, a vela. Lascio le coste italiane per attraversare il Mediterraneo sulla rotta opposta a quella oggi più battuta. Mi imbarco a Trapani per raggiungere la costa africana, Djerba, navigando uno dei tratti di mare più trafficati fin dall'antichità: il famigerato Canale di Sicilia. So bene quanto questa navigazione abbia rappresentato una via preferenziale di incontro e scontro tra due continenti e cento, mille civiltà. So altrettanto bene quanto questa rotta oggi sia innanzitutto legata alla speranza di centinaia di migliaia di africani in cerca di un futuro migliore. Nelle scorse settimane ho ascoltato i racconti di Gabriele Del Grande, che da anni segue le vicende delle migrazioni documentandole attraverso il suo blog. Storie drammatiche, come ci ricordano in maniera frettolosa e tendenziosa la maggior parte dei media, ma insieme stracariche di attese, di speranze in una vita migliore. Perché le storie delle emigrazione sono anche storie di entusiasmi inusitati, oltre che di inumani sacrifici, come ci ricorda Del Grande nelle pagine del libro “Il mare di mezzo”.
Se il mio partire è innanzitutto un viaggio di scoperta sensoriale e di studio, consapevole del fatto che il Mediterraneo va misurato sulla scala degli uomini, seguendo la lezione di Fernand Braudel, è altrettanto inevitabile che navigare a vela significa anche avvicinarsi concretamente alla grandezza del mare, insieme dolcissima e feroce.
“Partire, lasciare questa terra [il Marocco] che non ne voleva più sapere dei suoi figli, voltare le spalle a un paese così bello per poi tornare, un giorno a testa alta e forse ricco, partire per salvarsi la pelle, pur rischiando di perderla ...”. Anche di queste parole, che danno corpo al romanzo “Partire” di Tahar Ben Jelloun, cercherò di fare tesoro in questa lunga veleggiata tra le due rive del Mediterraneo.

mercoledì 14 luglio 2010

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare.”
Joseph Conrad



La recente gravissima crisi economica, che alcuni non temono di ricondurre a un'ennesima perversa strategia di speculazione finanziaria, ha amplificato esponenzialmente il novero delle questioni riguardanti i beni comuni: l'acqua e l'aria, le terre demaniali e le foreste, l'energia e la comunicazione, la conoscenza e l'educazione, la sanità e la previdenza. A questi si va ad aggiungere il più esteso dei beni comuni italiani: il mare. Va infatti ricordato che limitandosi esclusivamente alle acque territoriali (dodici miglia dalla costa - linea di base-), considerando i circa 7.500 chilometri costieri, il mare italiano si estende per circa 162.000 chilometri quadrati, una superficie simile a tutto il nord Italia e buona parte delle centro.
In questa temperie economica e mediatica, per chi cerca di difendere i beni comuni, proprio a partire dal mare, vengono in aiuto le idee di Bruno Amoroso, raccolte nel libro “Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere” (Diabasis, Reggio Emilia, pp. 153; € 12,50). Allievo e amico di Federico Caffé, è docente emerito in Economia internazionale all'Università di Roskilde in Danimarca. Dall'esperienza di studio e di vita nei Paesi scandinavi, parte la sua rapida e interessante analisi del welfare e delle politiche economiche degli ultimi cento anni. Un libro comunque agile, forse un po' frammentario almeno per un lettore comune, che ha il pregio di aprire prospettive inusuali, di stimolare la riflessione su concetti che anche a sinistra vengono spesso utilizzati come slogan privi di reale consapevolezza culturale e di conseguenti scelte politiche. Così Amoroso delinea la necessità di dibattere non solo l'uscita da questa feroce economia predatoria che ha preso il nome di globalizzazione, ma anche dalle risposte dei centri finanziari, dei governi e dell'Unione Europea, che non prendono minimamente in considerazioni le idee di decrescita (Serge Latouche) e sobrietà (Francesco Gesualdi). Riprendendo e articolando il pensiero e la prassi di altri economisti Amoroso evidenzia la necessità del superamento del liberismo, dell'abbandono definitivo del consumismo come barbarie culturale, ossia di aggiornare pensieri economici rimasti minoritari, ma al contrario imprescindibili per uscire dalle “lande della crescita e del consumismo”. Senza limitarsi alla “descrizione delle miserie dell'esistente”, ma per reagire a questo stato di fatto l'autore propone anche una breve ma efficace esplorazione delle “ragioni dell'ottimismo e le prospettive possibili”. Queste forze vengono spesso frettolosamente e colpevolmente liquidati come fenomeni di allarmismo e terrorismo, come inutili utopie o incosistenti esperienze. Bruno Amoroso invece le rivaluta, convinto della improrogabile sfida che attende la sinistra, quella di dare spazio alle spinte positive delle comunità, attuando quel passaggio concettuale e operativo riassunto nel sottotitolo del libro: “dallo stato del benessere alla società del benessere”. Grazie a studi di questo tipo, le argomentazioni per rivendicare il mare come bene comune si rafforzano, dando sostanza teorica al nostro slancio affettivo.

lunedì 5 luglio 2010

Il nostro mare quotidiano

Spiagge libere!
E' il grido che si leva sempre più forte lungo gli ottomila chilometri di coste italiane. E' di questi giorni il riaccendersi della protesta per le spiagge libere a Rimini, nella più popolare delle riviere. Se lungo le coste romagnole, come per altro documentato anche nel recente servizio giornalistico di Report, l'accesso agli stabilimenti balneari è libero e infinitamente meno commercialmente militarizzato che in lunghi tratti del litorale laziale o ligure, va però ricordato che a Rimini solo il 7% delle spiagge sono libere. La cosa è doppiamente inaccetabile se si considera che già da dieci anni la Regione Emilia-Romagna ha stabilito per legge che “sulle aree già destinate a spiaggia libera dagli strumenti urbanistici vigenti, non possono essere rilasciate concessioni che riducano il fronte a mare di dette aree al di sotto del 20 per cento
dell'estensione del litorale comunale destinato a stabilimenti balneari. Qualora detta percentuale sia già stata
superata non possono comunque essere rilasciate concessioni” (LR 9/2002). Senza dimenticare poi che le fortune balneari di Rimini si sono costruite su un'idea di vacanza popolare, di cui andrebbero oggi aggiornati contenuti e proposte, anche ascoltando voci critiche come quelle che salgono da tutte quelle associazioni che credono/praticano il confronto e la progettualità politica sui beni comuni. In Romagna, Abruzzo, Puglia, Liguria e in tante altre regioni i comitati continuano a battersi per la difesa di questo fondamentale bene comune, promuovendo una serie di manifestazioni popolari, nella più comprensiva e costruttiva delle accezioni, e amplificando le proprie ragioni attraverso il web. E proprio lungo i fili elettronici sarebbe auspicabile che si riuscisse a costruire una rete simile a quella che rivendica l'acqua potabile come bene comune. Un'articolata e coordinata serie di presidi, capaci di trasferire sul piano nazionale una istanza di libertà imprenscindibile per un Penisola, dove nel bene e nel male le rive sono diventate un affollatissimo spazio urbano. Quella italiana è oggi una “riva urbana”, in cui c'è gente che chiede spiagge, banchine portuali e acque libere dalle frenesie consumistiche nelle infinite declinazioni balneari ossia libere da inquinamenti di ogni tipo.

domenica 13 giugno 2010

Il nostro mare quotidiano

Chi ha conosciuto il Mediterraneo da bambino, e se ne è per sempre innamorato, ha una sua mappa olfattiva. Una carta in cui linee e punti sono sostituiti da odori e aromi, di acque e sabbie, di pesci e pini, di barche e vele. Odori capaci di resistere alle temperie degli anni, alle trasformazioni dei luoghi.

Per questo mi ha profondamente colpito il titolo del reportage di Maurizio Molinari, pubblicato da La Stampa giovedì scorso, sulla catastrofe ambientale del Golfo del Messico: “L'odore del disastro”.
Ma lo stesso “odore di disastro” l'ho sentito lo stesso giorno, anche in un'altra pagina de La Stampa dedicata alle nuove tendenze crocieristiche. Nell'articolo “Non è una nave per vecchi”, che sintetizza i risultati di un'indagine di mercato di Ca' Foscari Formazione e Ricerca, vengono analizzate le più recenti offerte d'intrattenimento delle enormi navi da crociera. Giganti tecnologici, smisurati Leviatani del XX secolo, assetati proprio di quello stesso petrolio che si è trasformato nell'incubo ecologico del Golfo del Messico. Una marea nera di enormi dimensioni, che potrebbe occupare metà Adriatico, con conseguenze ancor più devastanti.
Ritornando all'odore del disastro culturale riguardante il mare, credo che questo sia grave quanto quello ambientale, non fosse altro perché entrambi strettamente legati al terribile demone chiamato Petrolio. Colui che alimenta le favolose isole naviganti, in cui viene offerto tutto il catalogo consumistico di questi anni: dalla virtualità nelle sue più svariate forme, agli sport di ogni genere, golf incluso. Non è un caso che la parola “mare” non compaia nel lungo articolo, a testimonianza del fatto che ormai la crociera offre di tutto fuorché un qualsiasi rapporto con l'elemento che attraversa. Non ci sono più orizzonti, atmosfere, emozioni legate al mare e all'esperienza della navigazione. Sulla nave tutto ciò che ha valore è legato all'intrattenimento, sostanziando l'idea che del mare rimane solo la funzione difensiva, un aggiornamento in chiave commerciale dell'antico isolamento che questo ambiente ha sempre offerto.
Ecco perché lo stesso “odore del disastro” che si respira in queste settimane sulle spiagge della Louisiana, non ha solo i sentori del petrolio ma anche i dolciastri afrori del più evoluto “crocierismo”, proposto al “giovane, dinamico, viaggiatore e «divoratore» di immagini e destinazioni”.

mercoledì 26 maggio 2010

Il nostro mare quotidiano

Nuvole nerissime, sull'orizzonte del mare come bene comune, si addensano in questi ultimi giorni di maggio. Dal centro del Mediterraneo, si è mossa l'onda federalista italiana, abbattutasi innanzitutto sul demanio marittimo, con conseguenze difficilmente prevedibili. E' forse inutile dire che i timori superano le attese, visti i modi mercantili con cui in questi anni si sono affrontati questi temi. Da nord invece continua a scendere il vento liberista europeo che vuole eliminare la “modalità parentale” tutta italiana delle concessioni demaniali. In questa temperie normativa, dai controversi risvolti regionali, nazionali e comunitari, le uniche voci che i media amplificano sono quelle degli operatori economici, alias bagnini, chioschisti, ecc. che chiedono la vendita (svendita?) del più fruttuoso (per loro) dei beni pubblici italiani: la spiaggia. Sulle limitazioni nostrane del libero accesso alle rive si è occupato recentemente anche la trasmissione televisiva Report con “Di pubblico demanio” di Emilio Casalini.
Ma la gravità della situazione la sperimentiamo ogni giorno da anni, su entrambi i versanti della Penisola, isole piccole e grandi comprese. E dire che già Cicerone affermava: “cosa vi è di così comune come il mare per coloro che navigano e le coste per quelli che vi vengono gettati dai flutti?”.
Proprio prendendo spunto dai più recenti fatti di cronaca e, parafrasando queste antiche parole, ci sentiamo naufraghi di un mare perduto, capaci però ancora di urlare la pretesa di avere acque limpide dove immergerci, spiagge libere dove distenderci o passeggiare, banchine accessibili dove affacciarci per respirare l’aria del mare e ammirare i crepuscoli, baie protette dai venti e dai consumi dove calare l'ancora. Richieste improrogabili, parte di quella più generale battaglia civile volta a rivendicare i beni comuni.

mercoledì 19 maggio 2010

Biblioteca di mare e di costa



“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare.” Joseph Conrad


In Adriatico, più tardi che negli altri mari d'Italia, solo nella seconda metà del Novecento vennero definitivamente ammainate le vele sulle barche da lavoro. Piccole e grandi, armate al terzo o con vela latina, a oriente come a occidente, per secoli il lavoro sul mare è stato svolto nella grazia dei venti, anche quando per scelta o per necessità ci si muoveva a remi. Solo limitandosi all'Ottocento, lunghissimo è comunque l'elenco dei tipi navali impiegati, per la pesca costiera e quella d'altura, per la navigazione commerciale di cabotaggio e per quella di più ampio raggio, mediterraneo o oceanico che fosse. Sì, anche oceanica, visto che brigantini, brik, barcobestia costruiti e in armamento a Trieste, Fiume, Lussino, Orebic, Ragusa e Cattaro, solcarono tutti i mari del mondo, doppiarono i grandi capi, parteciparono insomma all'ultima maestosa età della vela, conclusasi agli inizi del Novecento. Sempre in Adriatico, ormai antica è pure la tradizione del diporto a fini sportivi, ludici o, illustrissimi e innumerevoli, turistici.
Proprio da quest'ultima necessità parte la narrazione, per parole e immagini, fatta da Luigi Divari nel libro “Barche del Golfo di Venezia”, da poco pubblicato per i tipi de Il Leggio (pp. 264 - € 35). Un libro ricco di storie e acquerelli, di colori tenui, sfumature, aloni che raccontano e soprattutto rievocano le atmosfere dei fabbricanti di remi, alberi forcole e altri armisi, il taglio e la cucitura delle vele, le sontuose scenografie delle feste veneziane e le avventure di s'cioponi e s'cioponanti, ossia dei sandolini e dei cacciatori di valle, che si muovevano silenziosamente a remi tra scanni, secche e canneti. Un viaggio documentario che partendo dalle coste occidentali si spinge verso quelle altrettanto affascinanti d'oriente. Le immagini votive, l'araldica delle vele, le fantasie dei pennelli segnavento, l'aura scultorea di forcole e remi, se a una prima visione restituiscono il fascino di un mondo perduto, a uno sguardo più attento suggeriscono anche le infinite potenzialità creative culturali ed economiche che l'Adriatico offre, alle genti che ne popolano le rive, a quelle che instancabilmente lo attraversano.

sabato 15 maggio 2010

Il nostro mare quotidiano

La stagione balneare è alle porte e, come ogni anno, aumenta la spinta a privatizzare le coste. La riscoperta estiva, consumistica e mediatica del mare o per meglio dire della spiaggia, è gravida di conseguenze nefaste (sarà un caso che in queste settimane le spiagge riordinate e preparate con i paletti per gli ombrelloni assomiglino tanto a campi cimiteriali?) per chi le rive le frequenta tutto l'anno, immerse nelle silenziose atmosfere autunnali, battute dalle gelide tramontane d'inverno, stemperate dal respiro africano dello scirocco, come in questa meravigliosa, bizzarra, primavera.
Perciò tutti quelli che non riducono il mare a consumo, devono reclamare, difendere, praticare il mare come bene comune. Non uno qualsiasi, ma il primo bene comune di una Penisola, una quasi isola, una pāene īnsula di cui le acque salate sono vitale liquido amniotico che insieme aggrazia, protegge, alimenta. Un'urgenza originaria, nel senso più intimo come in quello più condiviso, che ci fa ripercorrere rotte battute da altri e ne apre di nuove. Una rotta iniziatica verso solitarie veleggiate, lunghe passeggiate, rinfrancanti nuotate; esperienze capaci di ridestare un’appartenenza mediterranea che si nutre di racconti e romanzi, di cultura materiale e scientifica. Un invito a sperimentare il proprio personale modo di guardare, ascoltare, assaporare e annusare, di immergersi nel mare vicino, in quello prossimo alle nostre case. Sì, proprio in quello che bagna le nostre città, perché non possiamo rinunciare a un mare in cui immergerci quotidianamente. Certi che le singole rivendicazioni di gratuità, come tante piccole onde che sovrapponendosi prendono forza, si trasformino in una insopprimibile necessità collettiva di riappropriarsi del Mediterraneo. Aspettative eccessive, forse un abbaglio. Ma è risaputo che l’orizzonte marino stimola la fantasia, così come l'audacia. Un desiderio intenso, capace di far riaffiorare dalle secche della virtualità contemporanea, le infinite, reali, ricchezze del mare. Se, come ci ha insegnato Predrag Matvejević, sul Mediterraneo è stata concepita, nell'accezione ideale e materna della parola, l'Europa, credo che proprio lungo le rive di questo mare si possa ri-concepire il significato, i significati molteplici e sinergici, di bene comune, facendone una qualità fondante dell'Unione. Il paesaggio europeo e italiano in particolare non può trasformarsi in valore condiviso e perseguito senza una rivalutazione del mare, inteso innanzitutto come bene comune.