Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

giovedì 15 luglio 2010

Il nostro mare quotidiano

Riparto, a vela. Lascio le coste italiane per attraversare il Mediterraneo sulla rotta opposta a quella oggi più battuta. Mi imbarco a Trapani per raggiungere la costa africana, Djerba, navigando uno dei tratti di mare più trafficati fin dall'antichità: il famigerato Canale di Sicilia. So bene quanto questa navigazione abbia rappresentato una via preferenziale di incontro e scontro tra due continenti e cento, mille civiltà. So altrettanto bene quanto questa rotta oggi sia innanzitutto legata alla speranza di centinaia di migliaia di africani in cerca di un futuro migliore. Nelle scorse settimane ho ascoltato i racconti di Gabriele Del Grande, che da anni segue le vicende delle migrazioni documentandole attraverso il suo blog. Storie drammatiche, come ci ricordano in maniera frettolosa e tendenziosa la maggior parte dei media, ma insieme stracariche di attese, di speranze in una vita migliore. Perché le storie delle emigrazione sono anche storie di entusiasmi inusitati, oltre che di inumani sacrifici, come ci ricorda Del Grande nelle pagine del libro “Il mare di mezzo”.
Se il mio partire è innanzitutto un viaggio di scoperta sensoriale e di studio, consapevole del fatto che il Mediterraneo va misurato sulla scala degli uomini, seguendo la lezione di Fernand Braudel, è altrettanto inevitabile che navigare a vela significa anche avvicinarsi concretamente alla grandezza del mare, insieme dolcissima e feroce.
“Partire, lasciare questa terra [il Marocco] che non ne voleva più sapere dei suoi figli, voltare le spalle a un paese così bello per poi tornare, un giorno a testa alta e forse ricco, partire per salvarsi la pelle, pur rischiando di perderla ...”. Anche di queste parole, che danno corpo al romanzo “Partire” di Tahar Ben Jelloun, cercherò di fare tesoro in questa lunga veleggiata tra le due rive del Mediterraneo.

mercoledì 14 luglio 2010

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare.”
Joseph Conrad



La recente gravissima crisi economica, che alcuni non temono di ricondurre a un'ennesima perversa strategia di speculazione finanziaria, ha amplificato esponenzialmente il novero delle questioni riguardanti i beni comuni: l'acqua e l'aria, le terre demaniali e le foreste, l'energia e la comunicazione, la conoscenza e l'educazione, la sanità e la previdenza. A questi si va ad aggiungere il più esteso dei beni comuni italiani: il mare. Va infatti ricordato che limitandosi esclusivamente alle acque territoriali (dodici miglia dalla costa - linea di base-), considerando i circa 7.500 chilometri costieri, il mare italiano si estende per circa 162.000 chilometri quadrati, una superficie simile a tutto il nord Italia e buona parte delle centro.
In questa temperie economica e mediatica, per chi cerca di difendere i beni comuni, proprio a partire dal mare, vengono in aiuto le idee di Bruno Amoroso, raccolte nel libro “Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere” (Diabasis, Reggio Emilia, pp. 153; € 12,50). Allievo e amico di Federico Caffé, è docente emerito in Economia internazionale all'Università di Roskilde in Danimarca. Dall'esperienza di studio e di vita nei Paesi scandinavi, parte la sua rapida e interessante analisi del welfare e delle politiche economiche degli ultimi cento anni. Un libro comunque agile, forse un po' frammentario almeno per un lettore comune, che ha il pregio di aprire prospettive inusuali, di stimolare la riflessione su concetti che anche a sinistra vengono spesso utilizzati come slogan privi di reale consapevolezza culturale e di conseguenti scelte politiche. Così Amoroso delinea la necessità di dibattere non solo l'uscita da questa feroce economia predatoria che ha preso il nome di globalizzazione, ma anche dalle risposte dei centri finanziari, dei governi e dell'Unione Europea, che non prendono minimamente in considerazioni le idee di decrescita (Serge Latouche) e sobrietà (Francesco Gesualdi). Riprendendo e articolando il pensiero e la prassi di altri economisti Amoroso evidenzia la necessità del superamento del liberismo, dell'abbandono definitivo del consumismo come barbarie culturale, ossia di aggiornare pensieri economici rimasti minoritari, ma al contrario imprescindibili per uscire dalle “lande della crescita e del consumismo”. Senza limitarsi alla “descrizione delle miserie dell'esistente”, ma per reagire a questo stato di fatto l'autore propone anche una breve ma efficace esplorazione delle “ragioni dell'ottimismo e le prospettive possibili”. Queste forze vengono spesso frettolosamente e colpevolmente liquidati come fenomeni di allarmismo e terrorismo, come inutili utopie o incosistenti esperienze. Bruno Amoroso invece le rivaluta, convinto della improrogabile sfida che attende la sinistra, quella di dare spazio alle spinte positive delle comunità, attuando quel passaggio concettuale e operativo riassunto nel sottotitolo del libro: “dallo stato del benessere alla società del benessere”. Grazie a studi di questo tipo, le argomentazioni per rivendicare il mare come bene comune si rafforzano, dando sostanza teorica al nostro slancio affettivo.

lunedì 5 luglio 2010

Il nostro mare quotidiano

Spiagge libere!
E' il grido che si leva sempre più forte lungo gli ottomila chilometri di coste italiane. E' di questi giorni il riaccendersi della protesta per le spiagge libere a Rimini, nella più popolare delle riviere. Se lungo le coste romagnole, come per altro documentato anche nel recente servizio giornalistico di Report, l'accesso agli stabilimenti balneari è libero e infinitamente meno commercialmente militarizzato che in lunghi tratti del litorale laziale o ligure, va però ricordato che a Rimini solo il 7% delle spiagge sono libere. La cosa è doppiamente inaccetabile se si considera che già da dieci anni la Regione Emilia-Romagna ha stabilito per legge che “sulle aree già destinate a spiaggia libera dagli strumenti urbanistici vigenti, non possono essere rilasciate concessioni che riducano il fronte a mare di dette aree al di sotto del 20 per cento
dell'estensione del litorale comunale destinato a stabilimenti balneari. Qualora detta percentuale sia già stata
superata non possono comunque essere rilasciate concessioni” (LR 9/2002). Senza dimenticare poi che le fortune balneari di Rimini si sono costruite su un'idea di vacanza popolare, di cui andrebbero oggi aggiornati contenuti e proposte, anche ascoltando voci critiche come quelle che salgono da tutte quelle associazioni che credono/praticano il confronto e la progettualità politica sui beni comuni. In Romagna, Abruzzo, Puglia, Liguria e in tante altre regioni i comitati continuano a battersi per la difesa di questo fondamentale bene comune, promuovendo una serie di manifestazioni popolari, nella più comprensiva e costruttiva delle accezioni, e amplificando le proprie ragioni attraverso il web. E proprio lungo i fili elettronici sarebbe auspicabile che si riuscisse a costruire una rete simile a quella che rivendica l'acqua potabile come bene comune. Un'articolata e coordinata serie di presidi, capaci di trasferire sul piano nazionale una istanza di libertà imprenscindibile per un Penisola, dove nel bene e nel male le rive sono diventate un affollatissimo spazio urbano. Quella italiana è oggi una “riva urbana”, in cui c'è gente che chiede spiagge, banchine portuali e acque libere dalle frenesie consumistiche nelle infinite declinazioni balneari ossia libere da inquinamenti di ogni tipo.