Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

giovedì 17 luglio 2014

Velabondismo

Questi sono giorni di velabondaggi, un andare per mare vagabondo portato dal vento. "Barca minima, rotta massima", è l'unica certezza, sono poi il vento e le onde a decidere nello specifico gli approdi.
Buon vento, Fabio.

Pubblico di seguito due pagine del mio ultimo libro "Thalassa. Le acque del Mediterraneo", proprio dedicate alla vela.


Dopo aver nuotato e remato siamo pronti a issare la vela, a chiedere aiuto a Eolo per ampliare il nostro
orizzonte. Sentiamo un’irresistibile attrazione, vogliamo metterci in scia di quegli uomini che faticosamente,
a volte mortalmente, sperimentarono grandezza, fascino e tragicità del mare. Quando la vela chiama i venti,
i marinai s’affrettano sulla riva, riprendendo parole antiche.
Di notte, narra Valerio Flacco, al sopraggiungere del vento gli Argonauti legano i remi e sciolgono le vele.
Così per secoli fece l’uomo, alternando faticose navigazioni a remi a veloci veleggiate. A piene vele le navi
degli antichi andavano verso la notte, rincorrevano la luce, attraversavano i crepuscoli.
Anche la mia prua va verso il largo alla ricerca di ombre e chiarori. Con la vela, cerco un dialogo con
l’acqua e l’aria, andando per mare portato dal vento. Nel mito scelgo le immagini di Apollonio Rodio
per evocare l’insuperabile fascino di questa avventura, nella storia quelle di Plinio il Vecchio.

Rileggendo le Argonautiche continuo a pensare che non a caso Giasone fa sedere in consiglio gli eroi sulle vele avvolte. Proprio su quelle indispensabili ali e non genericamente in un altro qualsiasi punto della nave. Poi nelle ore seguenti, invocando Apollo, il figlio di Esone chiede di riempire le sue vele con un vento propizio, una grazia indispensabile per ogni navigazione. Nella Storia Naturale la vela diventa simbolo di operosità e temerarietà. Perfetta macchina prometeica, strumento potentissimo da maneggiare con cura, consapevoli che le passioni possono essere insieme splendide e terribili. Vele d’inusitata grandezza, dalla notte dei tempi, portano l’uomo a compiere ardite imprese, sfidando la morte.
Non a caso, sempre Plinio, attribuisce a Icaro l’invenzione della vela e al padre Dedalo quella dell’albero
e dell’antenna. Vela che Icaro non usò per navigare ma per volare troppo in alto, senza ascoltare le indicazioni del padre, andando incontro alla morte, come ci racconta Ovidio.

Anche con le nostre vele continuiamo a scrivere sull’acqua la storia di quel folle volo, a rinnovare la memoria di quel sogno di libertà.