Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

mercoledì 26 maggio 2010

Il nostro mare quotidiano

Nuvole nerissime, sull'orizzonte del mare come bene comune, si addensano in questi ultimi giorni di maggio. Dal centro del Mediterraneo, si è mossa l'onda federalista italiana, abbattutasi innanzitutto sul demanio marittimo, con conseguenze difficilmente prevedibili. E' forse inutile dire che i timori superano le attese, visti i modi mercantili con cui in questi anni si sono affrontati questi temi. Da nord invece continua a scendere il vento liberista europeo che vuole eliminare la “modalità parentale” tutta italiana delle concessioni demaniali. In questa temperie normativa, dai controversi risvolti regionali, nazionali e comunitari, le uniche voci che i media amplificano sono quelle degli operatori economici, alias bagnini, chioschisti, ecc. che chiedono la vendita (svendita?) del più fruttuoso (per loro) dei beni pubblici italiani: la spiaggia. Sulle limitazioni nostrane del libero accesso alle rive si è occupato recentemente anche la trasmissione televisiva Report con “Di pubblico demanio” di Emilio Casalini.
Ma la gravità della situazione la sperimentiamo ogni giorno da anni, su entrambi i versanti della Penisola, isole piccole e grandi comprese. E dire che già Cicerone affermava: “cosa vi è di così comune come il mare per coloro che navigano e le coste per quelli che vi vengono gettati dai flutti?”.
Proprio prendendo spunto dai più recenti fatti di cronaca e, parafrasando queste antiche parole, ci sentiamo naufraghi di un mare perduto, capaci però ancora di urlare la pretesa di avere acque limpide dove immergerci, spiagge libere dove distenderci o passeggiare, banchine accessibili dove affacciarci per respirare l’aria del mare e ammirare i crepuscoli, baie protette dai venti e dai consumi dove calare l'ancora. Richieste improrogabili, parte di quella più generale battaglia civile volta a rivendicare i beni comuni.

mercoledì 19 maggio 2010

Biblioteca di mare e di costa



“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare.” Joseph Conrad


In Adriatico, più tardi che negli altri mari d'Italia, solo nella seconda metà del Novecento vennero definitivamente ammainate le vele sulle barche da lavoro. Piccole e grandi, armate al terzo o con vela latina, a oriente come a occidente, per secoli il lavoro sul mare è stato svolto nella grazia dei venti, anche quando per scelta o per necessità ci si muoveva a remi. Solo limitandosi all'Ottocento, lunghissimo è comunque l'elenco dei tipi navali impiegati, per la pesca costiera e quella d'altura, per la navigazione commerciale di cabotaggio e per quella di più ampio raggio, mediterraneo o oceanico che fosse. Sì, anche oceanica, visto che brigantini, brik, barcobestia costruiti e in armamento a Trieste, Fiume, Lussino, Orebic, Ragusa e Cattaro, solcarono tutti i mari del mondo, doppiarono i grandi capi, parteciparono insomma all'ultima maestosa età della vela, conclusasi agli inizi del Novecento. Sempre in Adriatico, ormai antica è pure la tradizione del diporto a fini sportivi, ludici o, illustrissimi e innumerevoli, turistici.
Proprio da quest'ultima necessità parte la narrazione, per parole e immagini, fatta da Luigi Divari nel libro “Barche del Golfo di Venezia”, da poco pubblicato per i tipi de Il Leggio (pp. 264 - € 35). Un libro ricco di storie e acquerelli, di colori tenui, sfumature, aloni che raccontano e soprattutto rievocano le atmosfere dei fabbricanti di remi, alberi forcole e altri armisi, il taglio e la cucitura delle vele, le sontuose scenografie delle feste veneziane e le avventure di s'cioponi e s'cioponanti, ossia dei sandolini e dei cacciatori di valle, che si muovevano silenziosamente a remi tra scanni, secche e canneti. Un viaggio documentario che partendo dalle coste occidentali si spinge verso quelle altrettanto affascinanti d'oriente. Le immagini votive, l'araldica delle vele, le fantasie dei pennelli segnavento, l'aura scultorea di forcole e remi, se a una prima visione restituiscono il fascino di un mondo perduto, a uno sguardo più attento suggeriscono anche le infinite potenzialità creative culturali ed economiche che l'Adriatico offre, alle genti che ne popolano le rive, a quelle che instancabilmente lo attraversano.

sabato 15 maggio 2010

Il nostro mare quotidiano

La stagione balneare è alle porte e, come ogni anno, aumenta la spinta a privatizzare le coste. La riscoperta estiva, consumistica e mediatica del mare o per meglio dire della spiaggia, è gravida di conseguenze nefaste (sarà un caso che in queste settimane le spiagge riordinate e preparate con i paletti per gli ombrelloni assomiglino tanto a campi cimiteriali?) per chi le rive le frequenta tutto l'anno, immerse nelle silenziose atmosfere autunnali, battute dalle gelide tramontane d'inverno, stemperate dal respiro africano dello scirocco, come in questa meravigliosa, bizzarra, primavera.
Perciò tutti quelli che non riducono il mare a consumo, devono reclamare, difendere, praticare il mare come bene comune. Non uno qualsiasi, ma il primo bene comune di una Penisola, una quasi isola, una pāene īnsula di cui le acque salate sono vitale liquido amniotico che insieme aggrazia, protegge, alimenta. Un'urgenza originaria, nel senso più intimo come in quello più condiviso, che ci fa ripercorrere rotte battute da altri e ne apre di nuove. Una rotta iniziatica verso solitarie veleggiate, lunghe passeggiate, rinfrancanti nuotate; esperienze capaci di ridestare un’appartenenza mediterranea che si nutre di racconti e romanzi, di cultura materiale e scientifica. Un invito a sperimentare il proprio personale modo di guardare, ascoltare, assaporare e annusare, di immergersi nel mare vicino, in quello prossimo alle nostre case. Sì, proprio in quello che bagna le nostre città, perché non possiamo rinunciare a un mare in cui immergerci quotidianamente. Certi che le singole rivendicazioni di gratuità, come tante piccole onde che sovrapponendosi prendono forza, si trasformino in una insopprimibile necessità collettiva di riappropriarsi del Mediterraneo. Aspettative eccessive, forse un abbaglio. Ma è risaputo che l’orizzonte marino stimola la fantasia, così come l'audacia. Un desiderio intenso, capace di far riaffiorare dalle secche della virtualità contemporanea, le infinite, reali, ricchezze del mare. Se, come ci ha insegnato Predrag Matvejević, sul Mediterraneo è stata concepita, nell'accezione ideale e materna della parola, l'Europa, credo che proprio lungo le rive di questo mare si possa ri-concepire il significato, i significati molteplici e sinergici, di bene comune, facendone una qualità fondante dell'Unione. Il paesaggio europeo e italiano in particolare non può trasformarsi in valore condiviso e perseguito senza una rivalutazione del mare, inteso innanzitutto come bene comune.