Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

sabato 30 aprile 2011

Il nostro mare quotidiano

In queste settimane è entrata nel vivo la campagna referendaria per “l'acqua bene comune”, in cui siamo tutti chiamati ad esprimerci il 12 e il 13 giugno 2011.
A meno che .... come ci raccontano le cronache di questi giorni il Governo non trovi un altro escamotage per impedire il confronto su questo argomento di primaria importanza. Sulle implicazioni giuridiche e politiche dell'iniziativa ne ha scritto, in maniera chiara e condivisibile, nei giorni scorsi Stefano Rodotà su La Repubblica.
Qui mi preme rilanciare il parallelo tra le acque dolci e quelle salate, tra l'imprescindibile accesso gratuito alle fonti e alle rive, luoghi simbolici di una Penisola. Due casi emblematici del diritto universale a quei beni comuni che, oltre a garantire la sopravvivenza di tutti, si rivelano poi anche potenti volani di un ben-essere diffuso, da non confondere con un ben-avere di pochi. Sempre sulle pagine de La Repubblica, Carlo Petrini ha evidenziato come, in passato, alcune società floride “avevano inventato modi per distribuire l'acqua liberamente a tutti”.
A riguardo voglio ricordare come il diritto all'acqua è in maniera molto efficace raccontato da Ovidio nelle “Metamorfosi” (Libro VI, 313-379), in relazione al mito di Latoma, madre di Apollo e Diana. E' lei ad ammonire la “rozza masnada” che gli impedisce di attingere acqua fresca da bere; “Perché non volete che tocchi l'acqua? La natura non ha fatto di proprietà privata né il sole né l'aria e neppure la fluida acqua. E' a un bene pubblico che mi sono accostata, e ciò nonostante vi chiedo di darmene come si chiede un favore. ... Un sorso d'acqua sarà per me del nettare, e riconoscente dirò di aver riavuto la vita: con l'acqua mi ridonerete la vita. E abbiate pietà anche di questi, che dal mio grembo tendono le braccia”. Ma coloro che dell'acqua pretendono l'esclusiva proprietà sono sordi alle suppliche delle madri, anche a quella della madre degli dei, che in uno scoppio d'ira li punisce facendoli trasformare in rane capaci solo di litigare, imprecare e ingiuriare.
Una favola che va letta in ogni scuola, che va portata nei teatri e nelle piazze, che va raccontata nelle strade e nel web, per far capire che quello che sta succedendo in Italia e nel mondo è una pericolosissima storia antica, quella di chi vuole privatizzare i beni comuni, per farne profitto privato. Una favola che spiega benissimo perché è necessario votare SI' ai referendum sull'acqua pubblica del 12 e 13 giugno; convinti che questa scelta contribuirà anche a rafforzare l'idea che il mare, le spiagge, le rive sono beni comuni.

venerdì 29 aprile 2011

Notizie


Il mare e la spiaggia, il cielo e il vento: la gratuità. Quella che contraddistingue una bellissima manifestazione in corso in questi giorni a Cervia (RA), arrivata alla 31^ edizione: Il Festival Internazionale dell'Aquilone

mercoledì 13 aprile 2011

Il nostro mare quotidiano


Questa mattina un Adriatico insieme luminoso e burrascoso mi ha ricordato con grande gioia ed affetto due dei caratteri di Alessandro Scansani, direttore della casa editrice Diabasis, morto nei giorni scorsi.
La nostra amicizia, non scevra di aspre discussioni culturali e politiche, era nata proprio in riva al mare, o per meglio dire attorno a “Lo Spazio Adriatico”, la collana che ospita i miei due libri. Alessandro aveva letto le bozze del mio primo racconto adriatico, su suggerimento di Eugenio Turri, un pioniere della geografia antropologica italiana, anch'egli innamorato di questo nostro “mare d'Europa”, per utilizzare il titolo della monumentale opera in tre volumi pubblicata dieci anni fa, di cui è stato promotore, curatore e coautore. Su quel piccolo vascello di carta eravamo riusciti con gioia ad imbarcare anche due grandi autori, Predrag Matvejevic, che con il suo Breviario ha aggiornato la narrazione mediterranea, e Piero Guccione, la cui luce è la migliore rappresentazione della mediterraneità del Golfo di Venezia.
La collana “Lo Spazio Adriatico”, avviata con tempismo e coraggio nei primi anni Novanta nel pieno dei tragici avvenimenti balcanici, è dedicata alle “culture di incontro e di scontro delle due sponde”, declinando nello specifico adriatico quella tensione culturale che fa di Diabasis una casa editrice culturalmente indisciplinata, come amava definirla Alessandro. Per comprendere l'uomo e più in generale il progetto realizzato con la cofondatrice Giuliana Manfredi e i tanti che ne hanno condiviso gli orizzonti, basta rileggere le note editoriali di chiusura dei dieci titoli pubblicati. Ognuna è un piccolo, accuratissimo, distillato di saperi adriatici, un haiku in prosa, per il più orientale dei mari italiani. Rileggendoli ho pensato alle luci delle lampare che punteggiano il buio, immenso, Adriatico nelle notti senza luna. Per andare oltre le stereotipate visioni di questo piccolo mare, ci sono utili le pagine di Giacomo Scotti, guide “alla conoscenza di un Adriatico fascinoso arcipelago dei mari del sud della Dalmazia tra due sponde e molti mondi tra culture, storie e lingue dove la creazione di natura si intreccia e salda con la creazione degli uomini”, di Elvio Guagnini che ci descrive Trieste, “Identità di una città plurale la letteratura triestina dell'Otto-Novecento viene narrata in brevi saggi «quotidiani»”, di Rosario Pavia che ha curato una “Indagine sul complesso mondo Adriatico e sulle prospettive che la nuova Europa e i tempi nuovi aprono nel crocevia-koiné di popoli culture lingue religioni economie e mercati”. Un lavoro editoriale fatto con estrema cura e passione, sia nel confronto serrato con autori contemporanei, che riportando a galla le migliori pagine adriatiche del passato, quelle firmate da Biagio Marin che “canta altre rive”o di Fulvio Tomizza, “viaggiatore dall'Adriatico ad altre terre e mari, garzaia di altre storie”.
Questa mattina, nel fragore nelle onde, ho riascoltato il racconto delle prime visioni dell'Adriatico di Alessandro Scansani, quando nell'immediato dopoguerra trascorreva lunghe settimane d'estate sulle colline tra la Romagna e le Marche. Il suo sguardo di bambino emiliano si perdeva estasiato in quella infinita “pianura liquida”. Ricordando i suoi occhi azzurri e inquieti come il mare, rileggendo i suoi libri, amati, corretti, allevati e alimentati come solo un Padre sa fare, ripensando alla sua avventura editoriale avviata “per impulso morale, per amore della conoscenza e della libertà, per omerica apertura verso gli uomini, le loro storie, le loro città”, sapremo affrontare nel modo migliore le tante, durissime, sfide culturali che ci attendono, “andando attraverso” proprio come ci dice il nome della sua, nostra, nave: Diabasis.

venerdì 8 aprile 2011

Il nostro mare quotidiano


Vent'anni fa Yohan e Kater I Rades, negli anni scorsi Budafel e Pinar, solo ieri Cartagine e cento, mille altri nomi di navi naufragate o salvifiche, compongono un litania di sofferenze mediterranee che sembra non avere fine. Quella di un mare che, al di là di tanta retorica, rimane una tragica frontiera acquea.
Solo nel Mediterraneo 16.000 morti annegati o di sete o per altre cause, negli ultimi vent'anni, secondo quello che si legge sui quotidiani e documenta Fortress Europe. Il Canale d'Otranto ieri e quello di Sicilia oggi, stretti bracci di mare se visti su Google Maps o dal finestrino di un aereo; lunghissimi e pericolosissimi per chi è costretto invece ad attraversarli a bordo di malandati pescherecci, rugginose bettoline, insicuri gommoni. Le cronache di questi giorni riaccendono ancora una volta, in maniera spesso frettolosa e superficiale, l'attenzione sulla dimensione oscura del Mediterraneo.
In antitesi alla sua immagine vacanziera, nell’ultimo ventennio con il riesplodere dei fenomeni migratori questo mare è ritornato ad essere una delle porte d’ingresso privilegiate per l’emigrazione, riprendendo una sua più antica, dura, reale dimensione spaziale ed esperienziale, almeno per quelli che chiamiamo clandestini. Racconti di partenze disperate, navigazioni avventurose, a volte di tragici naufragi o di perigliosi sbarchi, sono diventate cronache quotidiane. Le barche rabberciate, le piccole flotte, il rimanere a vista, il finire in acqua, le onde infauste; oggetti, personaggi, situazioni apparentemente cancellati dalla nostra modernità riemergono nelle testimonianze di chi, vicinissimo a noi, vive l’altra faccia della contemporaneità. C’accomunano gli spazi, in questo caso il mare, unici nella fisicità, differenti nell’esperienza e quindi nel significato. Quelle che leggiamo sono storie intrise di modernità, fatte di sogni veicolati dalla televisione o da internet e di comunicazioni satellitari; ma al contempo raccontano anche una dimensione del mare antichissima, fatta di ansie, paure, drammi, a noi sconosciuti. La memoria storica è breve e anche le immagini del mare quasi sempre rispondono a necessità di consumo. Solo leggendo attentamente le cronache riscopriamo il Canale di Sicilia, perlustrato alla ricerca di naufraghi negli assolati giorni d’estate o di cadaveri in questa terribile primavera.