Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

lunedì 31 ottobre 2011

Biblioteca di mare e di costa



“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


Pietro Spirito, casertano di nascita, triestino d'adozione, è uno scrittore subacqueo, nel significato più ampio del termine. Tanti suoi articoli pubblicati su Il Piccolo di Trieste e alcuni libri sono dedicati a concrete esplorazioni subacquee, che diventano anche il pretesto per immergersi in storie piccole e grandi, note e sconosciute. In questa lunga e appassionata ricerca, i relitti “predicano la caduta di regni e imperi, ricordano la futilità delle aspirazioni umane, rappresentano la dissoluzione dell'io nello scorrere del tempo, la caducità di ogni destino”, come scrive nell'introduzione de “L'antenato sotto il mare. Un viaggio lungo la frontiera sommersa” (Guanda, 2010; pp 200, € 15). Il sottotitolo definisce subito l'area d'inchiesta, lo spazio acqueo dell'avventura, i luoghi delle immersioni, quel Golfo di Trieste che, per chi scende dalla Mitteleuropa, è “un abbaglio blu improvviso e inatteso, un braccio azzurro proteso verso settentrione, il primo casello di un'autostrada che porta dritto all'Africa e all'altra metà del mondo”. Undici capitoli per altrettanti relitti di navi, aerei, velieri, sommergibili, traghetti. Affondamenti misteriosi, come quello del bombardiere B-24, precipitato nell'inverno del 1945 a otto miglia a sud di Porto Buso, vicino Lignano, o epocali come quello del Baron Gautsch, il prioscafo del Lloyd Austriaco colato a picco nel luglio 1914 a ovest dell'arcipelago delle Brioni, vicino Pola. Relitti antichi come la Iulia Felix, una nave oneraria romana del II secolo d.C., più noto come il relitto di Grado, o recenti come il Mojolner, un traghetto incendiatosi e affondato sotto la diga del Porto vecchio di Trieste nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Il viaggio di Pietro Spirito termina sul Molo Audace, uno dei luoghi simbolo di Trieste, anch'esso a suo modo un relitto, “una piattaforma della memoria e dell'immaginario” cittadino e nazionale. Costruito infatti sui resti della nave militare asburgica San Carlo, da cui il molo prese il primo nome, affondata in porto nel 1740, ha rappresentato per secoli il punto di arrivo e partenza delle navi più importanti. Nel novembre 1918 sullo stesso attraccò il cacciatorpediniere Audace che portava in città la bandiera tricolore. Oggi quegli splendidi 246 metri di pietra che si infilano nel mare sono una delle più belle piazze d'Italia, uno dei simboli di un modo insieme antico e nuovo di vivere il mare, il nostro mare quotidiano.

martedì 18 ottobre 2011

Notizie

Lesina (FG), 21 ottobre 2011
"Fatti con l'acqua"
Una tavola rotonda attorno al tema della protezione delle aree costiere e lagunari, del rapporto tra lagune e mare e della storia e della cultura delle genti.
Scarica il programma completo

L'incontro rientra nelle attività del V^ Congresso Nazionale LAGUNET, un'associazione senza fini di lucro e ha per scopo la promozione dello studio degli ambienti acquatici di transizione, ovvero delle lagune, delle zone umide costiere e delle foci fluviali.

lunedì 17 ottobre 2011

Il nostro mare quotidiano

Quando nel marzo 2006 incominciai a lavorare a questo progetto, l'economia sembrava aver ritrovato il suo passo migliore, dopo la battuta d'arresto del 2001. Crescita infinita ed euforia finanziaria erano paradigmi imprescindibili per qualsiasi azione politica. In quella temperie consumistica l'idea dei beni comuni sembrava definitivamente tramontata nell'orizzonte occidentale. Anche la proprietà statale, che è cosa diversa dai beni comuni, scontava l'assedio feroce di quella privata. Una situazione, insieme economica e psicologica, che rendeva il mare e le rive paesaggi ad elevato rischio d'appropriazione indebita.
Lungo le coste mediterranee la pressione antropica, dopo aver sconvolto gli equilibri ambientali, manifestava e manifesta con determinazione la volontà di ridurre il libero accesso di tutti, a vantaggio di pochi. Spiagge, falesie e banchine venivano e vengono continuamente recintate, con il beneplacito o il silenzio-assenso delle istituzioni.
Poi, in conseguenza al crollo economico-finanziario del 2008, improvvisamente almeno nel dibattito pubblico hanno riguadagnato importanza idee eretiche, quali appunto quella dei beni comuni o della decrescita. Volendo elencare solo alcuni degli avvenimenti essenziali, diversi per approccio e filosofia, di questa lenta ma necessaria evoluzione culturale, basterà ricordare l'enciclica del giugno 2009“Caritas in veritate” di Benedetto XVI, il Premio Nobel dato nell'ottobre del 2009 all'economista dei commons Elinor Ostrom, o la recentissima rivolta planetaria degli indignados. In Italia, fondamentale è stata la battaglia vinta sull'acqua come bene comune, nel referendum del giugno scorso. Numerosissimi gli articoli e libri dedicati all'argomento, tra cui la recensione di Roberto Esposito su La Repubblica di venerdì 14 ottobre 2011, a “Beni comuni. Un manifesto” di Ugo Mattei, appena pubblicato da Laterza.
Un'analisi lucida, argomentata e condivisibile, in cui però evidenzio ancora una volta il mancato inserimento del mare tra i beni comuni, status giustamente riconosciuto a boschi e torrenti, per rimanere nel campo ambientale. Eppure insisto sul fatto che in una Penisola con ottomila chilometri di costa il bene comune per eccellenza è il mare, quello che ostinatamente chiamo il nostro mare quotidiano. Una grande foresta blu che sfiora le nostre città o, per meglio dire, la smisurata periferia costiera sorta negli ultimi cinquant'anni. Un orizzonte condiviso da milioni di italiani, che rende ancora più incredibile ed emblematica la svista, anche da parte di intellettuali che da decenni si battono per ridefinire e rivendicare i beni comuni.
Come è possibile che quell'infinito acqueo non lo si riesca a vedere? Come è possibile negare il libero accesso o addirittura l'affaccio alle coste?
Io al contrario credo che queste sciupate rive urbane possano essere riqualificate, anche sociologicamente ed economicamente, in maniera durevole, non effimera, solo se si riuscirà a correggere questa pericolosa miopia, ripensando il mare come valore condiviso e indivisibile. Il mare deve al più presto entrare nel novero dei beni comuni, terzo imprescindibile vertice di un triangolo costituzionale che non può delinearsi esclusivamente su beni privati e, in minima parte, pubblici. E' questo il disegno proposto da Roberto Esposito per “la trasformazione di un mondo che appare sempre meno nostro”, di un mare che è sempre meno nostro.

giovedì 6 ottobre 2011

Il nostro mare quotidiano


E' tempo di Barcolana, è tempo di far vela.
Vela intesa come attività sportiva, come svago lungo un giorno, una settimana, un viaggio. In breve vela da diporto. Quando nel 1969 prese il via la prima Barcolana, era ancora vivo in tutti gli appassionati il ricordo della vela da lavoro, al servizio del traffico e della pesca. Allora “far vela” significava innanzitutto partire nell'accezione marinaresca, ossia navigare. Ancora oggi per altro la locuzione resiste tra i pescatori più anziani e capita spesso di sentir dire, malgrado tutte le barche siano motorizzate da oltre mezzo secolo, “Abbiamo fatto vela (cioè navigato) per due ore, prima di raggiungere il luogo dove sono state calate le reti”. I mille sofisticati dettagli tecnici e le altrettanto numerose implicazioni sportive, non hanno eliminato alcune ritualità. Innanzitutto alziamo una vela, un gesto arcaico con valori anche simbolici perché, consciamente o inconsciamente, ogni volta rinnoviamo un rito di appartenenza. Entriamo a far parte di quella antichissima genia di marinai che hanno fatto vela verso il famigliare Adriatico, il vasto Mediterraneo o l'infinito Oceano. Se, rispetto al passato, differenti sono circostanze, motivazioni e materiali, simili rimangono alcune preoccupazioni. Tutti alzando una vela ci interroghiamo sul vento, su direzione, forza e durata di questo dio umorale, capace di dispensare preziosa grazia o duro affanno. Certo abbiamo satelliti e radar che guardano meglio di noi il cielo ma, in ultimo, la scelta di lascare o cazzare, di tenere tutta la tela o terzarolare, spetta a noi. La vela, piccola o grande, la rotta breve o lunga, chiede sapienza e prudenza, manualità e fatica, tutte qualità antiche.
Della vela il Golfo di Trieste è da tempo immemorabile dimora, anche nella più recente versione diportistica. Lungo e probabilmente lacunoso sarebbe l'elenco di manifestazioni e circoli, timonieri e prodieri, barche e cantieri, maestri d'ascia e progettisti. Ma alcune pagine di romanzi triestini possono restituire se non la storia, alcune emozioni di questa passione marinara. Nei “Ricordi istriani”, di Giani Stuparich, il mare, il remo e la vela sono paesaggi del quotidiano. “La vela impigrisce, - aveva affermato papà, - marinaio che non conosce remi è mezzo marinaio”, si ripete tra sé uno dei protagonisti, che da anni sogna quell'esperienza. “Quanto avevamo sospirato quella vela! Fino allora c'era toccato di faticare sui remi”. La vela è gioia pura, quando i venti sono favorevoli e comunque è quasi sempre infinitamente meno faticosa e più rapida del remo. “Ora finalmente avremmo avuto la vela. Il riposo, la gioia di starsene distesi a paiolo, con la barra del timone sotto braccio, e di sentirsi filare, volare sull'acqua con le ali”. L'amatissima pesca, per quel ragazzo e suo fratello, passarono immediatamente in secondo piano, tanto era l'entusiasmo per l'agognata vela. Poco importa se si trattava di una semplice battella a fondo piatto e non di un guzzo o una passera. Qualche anno dopo, nelle tragiche trincee della grande guerra, i due fratelli ricordavano “sommessamente la nostra barca a vela, le estati passate a Umago. La vela per noi significava riscatto, estro, libertà”.
La vela entra anche in alcune pagine de “L'onda dell'incrociatore”, di Pier Antonio Quarantotti Gambini. E' in uno splendido autunno, in giorni d'ottobre luminosi come quelli appena trascorsi, che Ario, uno dei protagonisti, “prese un'ubriacatura di sole e d'aria marina. Appena poteva, balzava in barca e dava al vento la vela. Era bello scivolar fuori dal mandracchio, tanto veloci e leggeri che nella manovra lo scafo sembrava fuggirgli via”. Bordeggiava dentro il porto per guadagnare il mare libero, che regalava “i sobbalzi, gli spruzzi, le schiaffate dell'acqua a prua”. Le sue avventure adolescenziali sono un continuo intrecciarsi con esperienze marinaresche, in cui la vela e il remo sono fondamentali, non solo nei risvolti sportivi. Gli piaceva uscire solo, “Filava stringendo la vela, come in regata. E spesso, tra mare e cielo, si metteva a cantare”.
Le migliaia di vele di domenica credo sarebbero piaciute a Stuparich e a Quaranttotti Gambini; di certo i loro ragazzi avrebbero cercato imbarco, per condividere le ansie e le gioie sempre nuove che regala il mare e il vento.