Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

venerdì 19 ottobre 2012

Anemofilia




eVento. Il vento e la città

reading sonoro di Fabio Fiori e Marco Fagotti
giovedì 25 ottobre ore 19,00 (ingresso gratuito)
Magazzini del Sale di Cervia (RA)



Anticipo una parte del racconto

Il vento, il più invisibile degli eventi naturali, e la città, la più visibile delle opere dell'uomo. Due elementi in rapporto sinergico o conflittuale a seconda delle circostanze, perfetta metafora dell'affascinate e inestricabile intreccio tra natura e cultura. Il vento come principio vitale di tutte le cose, fecondatore, nel mito pelasgico della creazione del mondo. La città come principio ideale della storia italiana, per Carlo Cattaneo, e più in generale di quella umana, secondo autorevoli interpretazioni archeologiche, urbanistiche e geografiche.
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Il vento è per alcuni un accidente meteorologico, per altri un piacere. Per tutti, magari inconsciamente, elemento imprescindibile del paesaggio, al contempo invisibile e potentissimo. Il vento piega gli alberi e le antenne, muove le onde e le nuvole, ribalta le cose e le consuetudini, animando la città. Il vento è l'anemos della città.
Ognuna ha un vento d'elezione: Trieste è scossa dalla Bora, Palermo dallo Scirocco, Genova dalla Tramontana, Roma dal Ponente, Rimini dal Levante. Il Libeccio piega i pini e le storie delle città tirreniche. Cambiando nome e carattere, ma non provenienza, il Garbino scuote le tamerici e le menti delle città adriatiche. A Trieste la Bora, “scricchia e turbina la città” quando disfrena la sua  “rauca anima”, scrive Scipio Slataper. In Sicilia “prima che lo si avverta nell’aria, lo scirocco si è già avvitato alle tempie, alle ginocchia”, ricorda Leonardo Sciascia. “Genova di tramontana”, canta Giorgio Caproni nella sua litania per la Dominante. Il Ponentino, quello “piu' malandrino che c'hai”, è l'unico, eterno re di Roma. Eugenio Montale descrive le coste liguri dove il “Libeccio sferza da anni le vecchie mura”, mentre sulle opposte sponde Raffaello Baldini da voce a uno dei suoi deliranti personaggi in un sincopato romagnolo:  “Lè garbéin, a l so, a l sint, t vu cha nesinta?”, “E' garbino, lo sò, lo sento, vuoi che non lo senta?”. Dal Maistrale della sua Sardegna natia al Furien della sua Romagna adottiva, Grazia Deledda ha sempre scelto luoghi ventosi, e raccontato storie di paesi del vento.
Personalmente, ogni volta che cammino lungo una strada o arrivo in una piazza non guardo i palazzi, ma sento il vento. Sento sì; perché il vento come sanno i marinai è innanzitutto una sensazione tattile, uditiva, olfattiva. Il vento prima di vederlo con gli occhi, lo sentiamo con la pelle, le orecchie, il naso. Il vento è schiaffo o carezza, frastuono o melodia, puzza o profumo; sempre foriero di cambiamento, movimento, evoluzione. Rinnova arie ferme, stantie e uggiose, rende più luminoso il cielo o più fredda la pioggia, comunque sferza. Per inciso io sono un anemofilo, ho bisogno del vento, mi dà vitalità e sicurezza, mi restituisce serenità e buon umore.
Il vento riattiva sensibilità ancestrali, muove le nuvole e i pensieri, agita le acque e il sangue. Senza il vento non solo le merci ma uomini e culture non si sarebbero mosse da una riva all'altra dei mediterranei prima e degli oceani dopo. La storia è stata per millenni spinta dalla vela, che del vento è la macchina perfetta, fin dalla notte dei tempi e, forse, tornerà ad esserlo.
Alternando allo stesso modo dolcezza e violenza, il vento spazza le acque e le terre.
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Il vento ci libera dall'aria inquinata e dall'aria condizionata, due facce della stessa medaglia, dello stesso vivere in libertà condizionata. Nelle piazze delle città e nella testa degli uomini, vanno costruite meridiane per conoscere il sole, sui tetti delle case e sui pensieri delle persone, vanno montati segnaventi per capire il vento.
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Il reading avverrà in occasione dell'inaugurazione della mostra Milano Marittima 100. Le architetture e la città, allestita sempre presso i Magazzini del Sale di Cervia (RA), a cura di Valentina Orioli con Emanuele Dari, e rimarrà aperta fino all'11 novembre, tutti i giorni dalle 9,30 alle 12,30 e dalle 15 alle 18.

venerdì 5 ottobre 2012

Insulomania


SAN PIETRO (Arcipelago del Sulcis)

“Il Mediterraneo è un immenso archivio e un profondo sepolcro”, ci ricorda Predrag Matvejevic, Omero balcanico di maestosa cultura. In quest'immenso archivio possiamo cercare non solo le storie di arcipelaghi geografici, ma ancor più suggestive tracce di arcipelaghi linguistici. E' il caso dell'arcipelago Tabarchino che riunisce, attraverso la lingua e la storia di una comunità genovese, le isole di Sant'Antioco e San Pietro in Sardegna, l'isla de Nueva Tabarca vicino Alicante in Spagna e l'isololotto di Tabarka, prospicente l'omonima città in Tunisia. Quattro isole geograficamente lontane, accomunate dalla lingua tabarchina e legate alle visissitudini di una comunità di pescatori originaria di Pegli, che nei secoli fece vela in massa tra le varie isole, a seconda dei venti del tempo. Il primo spostamento dalle coste liguri a quelle magrebine avvenne nel 1540, a seguito di un accordo tra la famiglia nobile dei Lomellini e il bey di Tunisi. Lì i pescatori di Pegli sfruttarono i vicini e profiqui banchi di corallo fino al 1738, quando un nutrito gruppo si trasferì nell'arcipelago del Sulcis. Qualche anno dopo la piccolissima isola, poco più di uno scoglio vicino alla terraferma, venne invasa dai saraceni e gli abitanti uccisi o fatti schiavi.

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L'articolo completo è pubblicato sul numero di ottobre 2012 di BOLINA