Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

venerdì 23 marzo 2012

Il nostro mare quotidiano



Da anni Salvatore Settis si batte strenuamente per la difesa del paesaggio. Una battaglia in cui la dimensione culturale si intreccia con quella civile; una battaglia durissima, ad armi impari, perché spesso lui, come tanti altri, oppongono la penna alla benna. In Italia e in tanti altri paesi mediterranei, una visione estetica di lungo respiro non sembra capace di sostituirsi a una visione economica di breve durata. Qualche giorno fa Salvatore Settis sulle pagine di La Repubblica ha spiegato molto bene che la difesa del paesaggio non è più, o non è solo, una questione estetica ma, prima di tutto, etica. E' arrivato il tempo in cui dobbiamo “partire da una definizione operativa di paesaggio, passando dal paesaggio "estetico" (da guardare) al paesaggio "etico" (da vivere)”. Un paesaggio, terrestre e marino, da vivere quotidianamente, da fruire piacevolmente. Penso che il nostro sguardo e il nostro impegno dovrebbe innanzitutto concentrarsi sulle distorsioni e disfunzioni ambientali dei paesaggi urbani e, occupandoci di coste, delle rive urbane, quelle che perimetrano la maggior parte della Penisola. Credo sia inutile fantasticare pinete, dune e lagune, là dove oggi troviamo strade, parcheggi e costruito. Dobbiamo invece batterci perché anche questi ultimi possono e devono essere riqualificati, partendo da un imprescindibile valore di libertà. Libertà di accesso al mare, libertà di movimento lungo le rive e le acque. Acque limpide dove immergersi, remare o veleggiare, per riscoprire gli infiniti e gratuiti piaceri del mare, dall'Adriatico allo Ionio, dal Ligure al Tirreno. Difendere oggi il mare, come ogni altro paesaggio, è un dovere etico, un dovere individuale e collettivo, necessario per ritrovare un piacere da condividere. Andiamo in riva al mare a leggere ad alta voce l'appello per un paesaggio etico di Salvatore Settis.

sabato 10 marzo 2012

Insulomania






LAMPEDUSA
L’isola di Lampedusa è molto più vicina alla Tunisia che non alla Sicilia. Già da questa generica constatazione geografica si può capire la sua storia geologica, ecologica e umana. Ma innanzitutto si chiariscono i fatti di cronaca dell'ultimo decennio, si capisce perché Lampedusa è inevitabilmente una delle principali porte d'Europa per chi viene dall'Africa. Acquista così ancor più fascino la Porta di Mimmo Paladino che dal 2008 si erge sul promontorio del Cavallo Bianco, che chiude a sud la baia del porto. Un segno artistico importante, insieme omaggio a naufraghi e migranti e monito per gli europei. Un varco aperto alla pietas. Quella cristiana o laica, che ha nell'Enea un'incancellabile riferimento. “Uomo insigne per pietà”, scrive Virgilio, che lasciò la sua patria d'oriente sconvolta dalla guerra per raggiungere, dopo un periglioso e lungo viaggio mediterraneo, “esule l'Italia”, da cui venne la stirpe latina.
Ritornando alle geografie, l'isola si eleva di poche decine di metri dalle acque della piattaforma continentale africana, insieme a Lampione, che con Linosa formano l'arcipelago delle Pelagie. Un'unità storica, climatica e in parte ecologica, ma non geologica. Perché Lampedusa e Lampione sono calcaree, mentre Linosa è vulcanica. Non a caso le prime hanno rocce di colori tenui, mentre sono scuri, ignei, nella terza.
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Le asprezze geografiche e meteorologiche, la lontananza dai continenti, hanno contribuito a lasciare per lunghi periodi l'isola deserta. Risale solo al 1843 la rifondazione, per voilere di Ferdinando II di Borbone. Ma un altro problema, non secondario, è stato per secoli quello saraceno e più in generale piratesco. Battaglie navali nelle acque limitrofe e scontri cavallereschi a terra, hanno segnato la storia dell'isola che porta ancora memoria nei suoi toponimi. Valle Dragut, cala Francese, cala Pisana e promontorio Cavallo Bianco, dove leggenda vuole che morì in battaglia il cavallo di Orlando Furioso.
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L'articolo completo è pubblicato sul numero di marzo 2012 di BOLINA